Corriere della Sera, 8 dicembre 2021
E Buzzati cambiò il finale del Deserto dei Tartari
A Dino Buzzati il cinema piaceva. Frequentava volentieri le sue sale. Quando era corrispondente ad Addis Abeba per il «Corriere della Sera» ci andava spesso, annotando diligentemente sul diario il titolo del film visto, quasi sempre senza commento. Ma non nascondeva i suoi gusti: a Michelangelo Antonioni preferiva Ingmar Bergman, apprezzava Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, gli piacevano Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer e Fuoco fatuo di Louis Malle. E stimava l’amico Federico Fellini con il quale, nonostante non si sentisse tagliato per fare il cinema – «Non è il mio mestiere», aveva confessato in un’intervista: «il teatro penso di saperlo fare, mentre il cinematografo no» – scrisse la sceneggiatura di Il viaggio di G. Mastorna, pellicola dalla vita tormentata, ispirata al suo racconto Il sacrilegio e mai realizzata. Tuttavia non collaborò ai soli due film tratti dai suoi romanzi quando era ancora in vita, Un amore di Gianni Vernuccio, dal libro omonimo, e Il fischio al naso di e con Ugo Tognazzi, dal racconto Sette piani già trasformato dallo stesso Buzzati nella pièce teatrale Un caso clinico.
Una cosa è certa, però: gli sarebbe piaciuto vedere trasformato in immagini il suo romanzo più famoso, quel Deserto dei Tartari che gli aveva dato la fama e che sarebbe arrivato al cinema, per mano di Valerio Zurlini, solo nel 1976, quattro anni dopo la scomparsa dello scrittore. Lo dimostrano la genesi lunga, complessa e difficile della pellicola e il ritrovamento nell’archivio personale di Buzzati dell’unico trattamento cinematografico del romanzo da lui stesso firmato, documento prezioso per scoprire come lo scrittore immaginava la vicenda di Giovanni Drogo nel passaggio dalla pagina al grande schermo.
Sono molti, durante i vent’anni di gestazione del film, gli interessati a cimentarsi in quel passaggio, da Michelangelo Antonioni ad Alain Delon. Il primo di cui si ha prova certa è Vittorio Gassman, che già nel settembre 1955 scrive a Buzzati manifestandogli il desiderio di trarre un lungometraggio da quel libro di cui era stato «un lettore entusiasta». Ma Carlo Ponti, che dovrebbe produrlo, è incerto sull’esito spettacolare del film. E l’attore, che nel Deserto di Zurlini interpreterà il colonnello Filimore, abbandona il progetto.
Seguiranno Mauro Morassi, giovane regista e sceneggiatore che pensa di affidare la direzione della pellicola a Vittorio Cottafavi, il francese Jacques Deray (Borsalino), l’americano David Lean (Lawrence d’Arabia), il francese Georges Franju (Occhi senza volto). Ma è nel 1962, proprio all’inizio del lungo percorso che porterà all’opera di Zurlini prodotta e interpretata da Jacques Perrin, che Dino Buzzati scrive il suo unico trattamento. Dopo aver ceduto i diritti al produttore Moris Ergas che aveva scelto come regista Claude Sautet (Asfalto che scotta), Dino Buzzati, coinvolto nel progetto, condensa il suo Deserto cinematografico in 46 pagine dattiloscritte pubblicate ora per la prima volta, nella nuova edizione degli Oscar Mondadori, insieme con l’originaria scaletta manoscritta del romanzo. Un trattamento che apre nuovi e inaspettati scenari rispetto al libro.
Il «suo» film, infatti, pur lasciandone identiche alcune parti – anche i dialoghi, aveva scritto Buzzati in una lettera, avrebbero poi potuto, in fase di sceneggiatura, essere presi dal libro —, trasforma la storia come solo il suo autore può fare, portando l’ipotetico spettatore oltre la pagina grazie anche al passaggio a un altro mezzo espressivo. Aggiunge fatti e sfumature; svela posti ed episodi rimasti fuori dal romanzo, ma che appartengono alla vita del protagonista e della Fortezza. E soprattutto, sceglie un diverso finale: non sarà più Drogo a dover abbandonare, malato, la Fortezza proprio quando i Tartari stanno arrivando, morendo da solo in una locanda, come nel libro; né lui lascerà la Bastiani di sua volontà, facendovi ritorno anni dopo, trovandola in rovina e deserta, come aveva ipotizzato nella scaletta del romanzo.
Per il film Buzzati immagina che sia Filimore a vivere la fine di Drogo con la malattia e la partenza obbligata, e che quest’ultimo muoia invece per una caduta accidentale in «un profondo pozzo» della Fortezza, ignorato dai soldati che si preparano alla battaglia e dalle «nuvole bianche che passano indifferenti nel cielo». Un finale spiazzante che aggiunge un altro aspetto beffardo del destino: la morte per caso, che accentua il senso di precarietà della vita, la sua inafferrabilità. Il significato primario del libro, incarnato dal colonnello, rimane nel film, ma Drogo muore così, senza essere riuscito a dare un significato alla propria esistenza. Come nella prima scaletta del romanzo, non c’è riscatto. Ma c’è, più forte che lì, una visione pessimistica e disillusa della vita, che può annullare improvvisamente – per malattia o disgrazia – i sogni e le speranze a lungo coltivate e attese.
Tre finali diversi per un romanzo senza fine. Il deserto dei Tartari è «il libro della mia vita perché quando stavo scrivendolo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte, quasi si trattasse di un’autobiografia», aveva affermato Buzzati in un’intervista del 1966. Un’autobiografia con Giovanni Drogo alter ego di Dino Buzzati, che cresce e invecchia come l’Antoine Doinel di François Truffaut. Tanto che nel manoscritto di Un amore il nome del protagonista è originariamente Drogo, corretto solo in corso d’opera in Dorigo. Perché, si chiamasse Drogo o Dorigo, era sempre Buzzati.
Una volta – era la fine degli anni Sessanta – Giulio Nascimbeni gli chiese perché fosse così immutabile nel modo di vestire, con una predilezione per il taglio cortissimo dei capelli: «Perché sono ancora il tenente Drogo», rispose Buzzati. E continuerà a esserlo fino a Il Reggimento parte all’alba, ultimo capitolo, incompiuto, della «sua» autobiografia. Quando Buzzati riceverà la chiamata finale, l’ultima, cui non si può non rispondere perché quel reggimento non prevede disertori; e, come Drogo dalla Fortezza tanti anni prima, partirà.