Corriere della Sera, 8 dicembre 2021
Biografia di Massimo Ghini raccontata da lui stesso
L a prima volta che si è sentito attore è stata servendo la Santa messa: «Mi proposero di fare il chierichetto nella mia parrocchia e accettai subito – racconta Massimo Ghini —. La celebrazione del rito cattolico è una rappresentazione: si indossa un costume, si compiono determinati gesti, si dicono frasi e si intonano canti da copione. Diciamo la verità: è un vero e proprio spettacolo... È stato lì, da ragazzino e davanti a un altare, che ho avvertito dentro di me i primi sintomi, i primi segni di un’anima da attore. E pensare che ero stato battezzato di nascosto...».
Perché?
«Mio padre era un esponente del partito comunista, quindi assolutamente contrario. Mia madre e mia zia, invece, erano credenti e, quando avevo già compiuto 2 anni, riuscirono a organizzare il battesimo in gran segreto nella chiesa di Sant’Eusebio: talmente segreto, che entrai dal portone principale e uscii da quello secondario... L’anno seguente i miei genitori si sono separati e ho svolto i miei primi anni di scuola in un istituto di Salesiani... ecco perché poi sono approdato al ruolo di chierichetto».
Adesso, però, interpreta quello del Conte Vladimiro, un vampiro snob, tra zombie, fantasmi e licantropi, nel divertente film «Una famiglia mostruosa», con la regia di Volfango De Biasi.
«Si potrebbe dire, dalle stelle del Paradiso alle stalle dell’Inferno – ride Ghini —. È un ruolo che mi ha molto divertito, ma la prima difficoltà nel doverlo affrontare e la prima domanda che mi sono posto è stata: come parla Dracula? Il vampiro di solito o non parla, oppure se parla non può avere un accento... di conseguenza dovevo trovare un linguaggio asettico, che rispecchiasse in qualche modo il mio rango nobiliare. Così, una mattina mi viene in mente un’idea: e se parlassi come parlava l’avvocato Agnelli? D’altronde lui è stato un vampiro in tutti i sensi... quindi andava benissimo per il personaggio, e così ho fatto».
Dal recitare la Santa messa come chierichetto a recitare con Giorgio Strehler: come ci è arrivato?
«È una lunga storia. Avevo terminato, a fatica e con varie bocciature, il liceo scientifico: basti dire che in matematica avevo 4, tanto che il professore una volta mi chiese: ma perché hai scelto lo scientifico se in questa materia sei una frana? Oltretutto ero un contestatore nato, sempre molto polemico, sono stato persino cacciato da scuola perché partecipavo ai cortei sessantottini e mi mettevo fuori dall’istituto urlando al megafono per agitare gli altri studenti e incitarli a non entrare in classe. Tant’è, ma alla fine riuscii a superare l’esame di maturità. Mi iscrissi alla facoltà di Legge, per tenere buoni i miei, senza avere alcuna intenzione di studiare seriamente, ma nel frattempo lavoricchiavo con compagnie di filodrammatici, finché decisi di provare a entrare all’Accademia d’arte drammatica. Pensavo di essermi preparato bene per superare il provino, l’esame di ammissione e invece... mi bocciano. Ci rimasi malissimo, era come sentirmi dire: tu non puoi fare questo mestiere. Poi parto per il servizio militare, altra tragedia, finché una sera, grazie a un amico ben introdotto mi ritrovo a cena in un ristorante romano con il mitico Gianni Santuccio: gli fui subito simpatico e facemmo amicizia».
E allora?
«Ero sempre alla ricerca di lavoro, perché essendo molto tignoso non volevo chiedere soldi ai miei, volevo sentirmi libero. Vado a Milano, chiamo al telefono il grande attore che mi invita a cena addirittura al Santa Lucia, punto d’arrivo di una carriera, per me punto di partenza. Santuccio, senza conoscere minimamente le mie ipotetiche qualità attoriali, mi presenta agli altri commensali come un giovane artisticamente interessante. Mi propongono di tentare un provino per far parte del “Re Lear”, cui stava lavorando Strehler. Quel giorno al Piccolo ero l’ultimo in lista, aspetto sei ore prima di poter essere ammesso: le ore più lunghe della mia vita. Finalmente salgo sul palcoscenico e recito un monologo, non ricordo più quale, davanti al regista seduto in platea: silenzioso, nel buio della sala, non proferisce parola. Ma una settimana dopo mi chiamano al telefono, dicendo: sei stato preso».
Chissà quanta felicità...
«Felicità? In realtà, pensai: non è vero, qualcuno si è sbagliato. Perché un regista famoso come Strehler mi accetta in compagnia e quelli dell’Accademia mi hanno bocciato? E invece era proprio vero... certo, un piccolo ruolo, impersonavo uno dei servi, dicevo un paio di battute, però tra quelle più belle del dramma. E poi a Strehler ero simpatico, mi apostrofava divertito: uhè, romanaccio!».
Perché parlava con accento dialettale?
«Assolutamente no, anzi, mi ero ben preparato nella dizione, però a lui piaceva chiamarmi così, era un brontolone, mai cattivo, né volgare, sempre elegantissimo con i suoi capelli azzurri... Un padreterno. Quando beccavo certi suoi cazziatoni, non ci dormivo la notte, eppure erano una spinta efficace a dare il meglio... Tuttavia, oltre al Maestro, nessun altro mi rivolgeva la parola e fui molto sorpreso quando, un giorno, vengo convocato da Nina Vinchi, la signora del Piccolo. Per me era come essere stato convocato dal preside del liceo...».
Il motivo della convocazione?
«Io vado, busso alla porta del suo ufficio, entro, lei era al telefono e mi fa cenno di sedere, mentre continua il suo colloquio telefonico con toni di durezza. Mi aspettavo il peggio. Finalmente riaggancia la cornetta, mi guarda dritto negli occhi e mi fa: senta Ghini, si ricordi una cosa, qui siamo a Milano, non a Roma, è chiaro?».
E lei che cosa risponde?
«Che fino a qui c’ero arrivato... Poi ha attaccato un pistolotto senza alcun motivo... mi sembrava una suora che ti convoca per dirti quello che puoi e che non puoi fare... Comunque quelle mie due battute nel “Re Lear” sono state un grande inizio: con lo spettacolo debuttammo all’Odéon di Parigi».
Dall’Odéon al villaggio Valtour: come c’è finito e per quale motivo?
«Terminate le repliche, e la relativa tournée del “Re Lear”, ero talmente giovane e sconosciuto che mi ritrovo di nuovo senza lavoro, avevo un gran bisogno di guadagnare. Avevo conosciuto Rosario Fiorello, che lavorava come animatore, e gli chiesi se potevo fare qualcosa anch’io, avrei accettato persino di fare il barista. Siccome però nel villaggio c’era un anfiteatro, gli proposi di organizzare uno spettacolo tratto da “La gatta Cenerentola”».
Un’opera di Roberto De Simone per gli ospiti di un villaggio turistico?
«Sì, una follia, eppure a Rosario piacque l’idea, aveva fiducia in me e fu un gran successo, anche perché io so cantare piuttosto bene. Quando frequentavo le scuole medie venni preso nella Schola Cantorum di una Chiesa in via Giulia. Lì il problema, all’inizio, fu che non conoscevo le canzoni del Santo Natale, provenendo da una casa di comunisti non conoscevo i testi. Il maestro organista mi chiese: che canzone sai? E io rispondo: Bella ciao. Lui non si scandalizza, me la fa cantare tra le sacre mura religiose e sentenzia: questo canta bene, è intonato. All’epoca la mia voce era da soprano, crescendo mi è venuta quella da contralto, pure nel canto c’era il germe della recitazione».
L’incontro con Gregory Peck come è avvenuto?
«Franco Zeffirelli stava cercando per il suo spettacolo “Maria Stuarda” con Rossella Falk e Valentina Cortese, un attore per il personaggio di Mortimer. Vengo invitato a raggiungerlo nella sua mega villa a Positano. Mi faccio prestare un’auto e parto. Arrivo davanti al cancello, suono, nessuno risponde. Era agosto, faceva caldo ed ero tutto sudato anche per l’emozione. Trascorrono venti minuti almeno e a un certo punto sento in lontananza rumore di zoccoli, di qualcuno che era evidentemente sceso nella spiaggia privata. Infilo la testa tra le sbarre del cancello e pian piano mi appare la figura di un omone, almeno un metro e 90: era proprio lui, il mitico Peck che, in costume, si avvicinava al cancello. Vengo assalito dal panico... un infarto. Lui mi guarda e mi chiede con voce suadente: do you want come inside? E io tutto tremante rispondo con voce stridula: yes. Mi apre, entro, resto da solo impalato... e mi chiedo: quando racconto agli altri che mi ha aperto il cancello Gregory Peck, chi ci crede?».
Ha mai raccontato bugie?
«Non sono bugiardo in modo bieco, lo sono nel senso che, facendo l’attore, rappresento sempre la bugia, la mia professione è fatta di interpretazioni che sono verosimiglianze mai vere, quando recito non sono io, sono un altro, di conseguenza mento. Però, la bugia reale più grande che ho detto esiste: quando ero giovane affermavo di essere stato ammesso all’Accademia D’Amico, ma di essermene andato perché mi avevano chiamato per uno spettacolo. Mi vergognavo di dire che ero stato bocciato».
Si è mai sentito snobbato dalla critica?
«Sempre, perché sono un eclettico e per questo considerato superficiale. Non mi lamento più dei rari premi che ho ricevuto, tra i quali un Nastro d’argento alla carriera. Mi sono lamentato talmente tante volte, che ho capito di aver fatto autogol».
E con la sua carriera politica, che iniziò giovanissimo insieme con Walter Veltroni, entrambi militanti della Fgci, ha definitivamente chiuso?
«Sì, io con i capelli lunghi, lui con gli occhiali Ray-Ban... legammo subito e siamo rimasti amici. Adesso mi candido sindaco di Roma: faccio ancora in tempo?».