il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2021
Vinili, il mercato cresce la qualità s’abbassa
Era un rito da catecumeni, anzi da setta profana. Dopo aver comprato “l’ultimo” 33 giri dei Led Zeppelin o dei Genesis, la comitiva si intruppava nella stanza del fortunato proprietario del disco, cui spettava il compito di officiare l’“introibo” della cerimonia: far scendere la puntina sul long-playing (confidando nel giusto peso dell’accessorio, senza rischiare l’aratura del solco o il graffio irreparabile) e attendere, in un silenzio carico di aspettative, di farsi trasportare in universi inesplorati per una nuova avventura del rock e pop.
Un suono caldo, profondo, avresti detto umano nella sua difettibilità, invadeva l’ambiente: oggi fa nostalgia a ripensarci, ma quel prodigio esoterico era invece una caratteristica del dispositivo, un meraviglioso inganno per le orecchie, anche se la chiamavi “alta fedeltà”. Ti ci ritrovavi avvolto, dentro quel mondo magico, e guai all’amico sbadato che lordava la superficie dell’Lp con le dita unte di pizza, l’oscena impronta del reo da scomunicare. Album artisticamente supremi e registrati (nel trentennio aureo tra i 50 e gli 80) appositamente per essere trasferiti sul cerchio di vinile.
Più tardi venne il gelido, surrettiziamente “eterno” Cd, e nel ’93 i long-playing furono parcheggiati in obitorio. Nessuna casa discografica li produceva più, la tecnologia aveva infilato un raggio laser nel cuore degli irriducibili. Eppure, per il vinile era solo una morte apparente: dopo la rianimazione lazzaresca del 2007 da parte di major ed etichette indipendenti e un ostinato inseguimento al compact, il 2021 è stato l’anno del sorpasso. Ok, sempre di nicchia si tratta: ma nonostante il salto generazionale, con gli adolescenti del Terzo millennio abituati a “sentire” (il verbo definisce una fruizione distratta, effimera) in totale isolamento cuffiettaro le playlist dello streaming, il vecchio vinile è tornato ribaldamente in salute.
Gli operatori confidano in un boom natalizio, e già i dati del primo trimestre 2021 certificati dalla Fimi parlavano di un volume d’affari attorno al vinile di 4,7 milioni di euro contro i 4,4 del Cd, per una crescita esponenziale del 121 per cento dal 2010. Briciole, se pensiamo che lo streaming si mangia l’80 per cento del mercato nazionale e mondiale, ma succulente. Perché rilanciano la “musica solida” con il feticismo tattile – erotico – che delizia gli appassionati, a fronte di quella “liquida”, impalpabile, inafferrabile, dei download e dei brani che evaporano dentro uno smartphone.
Un ritorno all’antico? Sarebbe come sperare nella scomparsa delle auto in favore dei fiacre. Non è neppure una minaccia all’economia di scala della filiera musicale. Che è in crescita ovunque, si badi bene: un settore che globalmente vale 21,6 miliardi di dollari, con una quota-vinile da 889 milioni di biglietti verdi. E l’Italia è l’ottava potenza del pianeta rispetto al consumo di Lp. Tanto che le case discografiche sono tornate a stampare con regolarità le nuove uscite proprio in questo formato. Sì, ma con che qualità?
Le produzioni contemporanee o del catalogo dai Novanta in poi sono state concepite per essere masterizzate su Cd o per lo streaming: quindi con una compressione dei suoni che penalizza la “spazialità” del vinile vecchia maniera. Anche la “pasta” utilizzata è spesso di qualità inferiore rispetto a quella delle stagioni ruggenti (a meno di aprire il portafoglio per l’Hd Vynil, un futuristico procedimento che tra laser e 3D garantisce mirabilie); per non dire del problema dell’impianto in cui ascoltare (e non sentire) i brani. Un tempo il combinato disposto piatto-equalizzatore-casse troneggianti era il mausoleo tecnologico che occupava una vasta area della casa, con l’audiofilo a largheggiare in spese pur di far godere i padiglioni auricolari. Oggi esistono valigiotti portatili da cento euro, ma un vinile violentato da certe pseudo-testine non regge più di dieci repliche.
Guai a strapazzare lì sopra le edizioni originali dei long-playing, preziose non solo sul piano sentimentale. Esempi? Le prime rare stampe del mitologico Black Album di Prince (datate 1987) valgono più di 27 mila dollari nel ranking del collezionismo. Mentre quelle del secondo Lp dei Sex Pistols God Save the Queen toccano quota 16 mila dollari, e il doppio “Ummagumma dei Pink Floyd 13 mila. A patto, ripetiamo, che non si tratti di volgari ristampe. Se possedete questi tesori e non siete intenzionati a rivenderli, adoperate un sistema di riproduzione all’altezza.
Un “alta fedeltà” strepitoso lo pagate molto meno di una di queste gemme, ma se volete stupire il quartierino ne trovate da 60 mila euro. C’è poi il problema di dove acquistare il vinile: la visita – lunga e meditata – nel negozio specializzato è sempre stata parte della liturgia dei devoti. Compulsare le copertine, leggerne le note, scegliere: finché è arrivata Amazon, e addio taverna dei dischi. In Italia quindici anni fa erano in attività ben 1.400 punti vendita (strumenti compresi) mentre una più recente valutazione pre-pandemica ne rilevava solo 250 su tutto il territorio nazionale. Adesso è ancora peggio. Ma i catecumeni non si arrendono: il vinile è l’ostia sconsacrata del rock, la guerra agli isolazionisti delle cuffiette e alla pochezza dello streaming è ormai dichiarata.