Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2021
La russia, gli Usa e la guerra per lo spazio
Gli “astronauti” impegnati a navigare tra le stelle, i “cosmonauti” nell’universo: fin dall’inizio, nello spazio, tra Stati Uniti e URSS/Russia fu gara a rincorrersi. Fin da quando nel 1957 i sovietici lanciarono per primi in orbita Sputnik, un piccolo satellite artificiale, trasformandolo nel simbolo della propria superiorità tecnologica. Quattro anni dopo, furono ancora loro a portare per primi un uomo in orbita: «Poekhali!», andiamo! esclamò Jurij Gagarin prima del lancio. Ma poi sulla Luna ci andarono gli americani, ormai in testa nella corsa.
Eppure la parola sputnik, in russo, significa “colui che viaggia con”: concetto più appropriato, quello di compagno di strada, a una fase successiva, quella in cui la cooperazione spaziale tra russi e americani, cementata dalla convivenza all’interno della Stazione internazionale orbitante (ISS), è diventata una delle poche aree di sintonia nelle relazioni bilaterali, resistente anche quando sulla Terra calava il gelo. Come se fare fronte comune fosse più facile lassù, di fronte alla grandiosità della sfida.
«Grazie a Dio – osservava il presidente Vladimir Putin tre anni fa, nell’aprile 2018, commemorando la “Giornata del Cosmonauta” – questo settore non si lascia influenzare dalla politica». «Voliamo insieme. Rischiamo insieme e ci aiutiamo a vicenda», confermava, al suo fianco, Sergej Krikalëv, l’uomo che nel 1991 era a bordo della stazione Mir mentre si smembrava l’URSS, il Paese che lo aveva lanciato in orbita. «Questa è una sfera di attività che unisce, mi auguro continui così», assentiva Putin.
Ma ora, anche in cielo le strade di russi e americani si dividono. Quaggiù la diffidenza e le tensioni sono cresciute al punto da compromettere ogni legame rimasto. E nello stesso tempo anche lo spazio è cambiato: sempre più strategico per gli interessi nazionali, si vede imporre quei confini geopolitici che era sembrato poter superare. «Dalla meteorologia al GPS – scriveva in “Heavenly Ambitions” la professoressa Joan Johnson-Freese, dello US Naval War College – i satelliti sono cruciali per le attività divenute parte della nostra vita quotidiana. Ma il settore americano della difesa, e quelli di altri Paesi, hanno reso lo spazio un’arena essenziale alle loro operazioni, nelle comunicazioni e nello spionaggio. A partire dal tentativo dell’amministrazione Reagan di creare un sistema di difesa missilistico per proteggersi da attacchi sovietici, gli Stati Uniti hanno deciso di dover essere la potenza dominante nello spazio». Di non aver più bisogno di cooperare con nessuno.
Questo unilateralismo sempre più marcato ha deluso le aspettative di Mosca, che sperava di estendere a Marte la collaborazione con i partner e che si è vista offrire un ruolo minore anche per il programma Artemis, che riporterà gli americani sulla Luna. Proposta respinta, dunque, da Dmitrij Rogozin, direttore del programma spaziale russo Roscosmos. Riflettendo i nuovi equilibri geopolitici, in aprile la Russia ha annunciato che costruirà per il 2030 una base lunare permanente con la Cina.
Mosca ha le competenze e l’esperienza, Pechino l’ambizione e risorse finanziarie su cui Roscosmos non può stare al passo con gli americani (1,7 miliardi di dollari il suo budget 2020, 22,6 miliardi quello della Nasa). Ma quanto sarà solida la nuova alleanza? Qualcuno la considera un segnale lanciato dai russi agli americani, un invito a ritrovarsi. Per ora, i giorni della Stazione spaziale internazionale, dove i cinesi non sono mai stati invitati e dove russi e americani hanno lavorato fianco a fianco per vent’anni, sembrano contati.
La grande base in orbita a 400 km dalla Terra sta invecchiando, difficile immaginarla ancora in azione oltre il 2030. Un altro elemento decisivo, però, è stato l’ingresso dei privati nel business dello spazio. Orfani dal 2011 della flotta Shuttle, per nove anni gli americani hanno dovuto affidarsi ai russi per avere un passaggio per la ISS, per cambiare gli equipaggi e portare rifornimenti: pagando 81 milioni di dollari un biglietto che era anche un riconoscimento, un segnale della dipendenza reciproca che teneva viva la collaborazione. Ora sono Boeing e SpaceX a fare la spola, ora le controparti di Rogozin sono Elon Musk, Jeff Bezos, Richard Branson. Attualmente Roscosmos sta sviluppando un razzo, Amur, in grado di ritornare sulla Terra, ma il pioniere è SpaceX. E con il prossimo anno gli americani smetteranno di utilizzare i motori RD-180, russi, per i propri razzi.
In questo clima, la Russia sta valutando di lasciare la ISS in anticipo, nel 2025, e riutilizzare parte dei propri moduli per una nuova stazione separata. Lo stesso farebbero gli americani. Tra le nuove frontiere che ciascuno inseguirebbe da solo, l’energia: Mosca sta programmando una missione interplanetaria (Luna, Venere, Giove) resa possibile da un modulo/reattore, Zeus, in grado di generare energia nucleare sufficiente a lanciare carichi pesanti nello spazio profondo.
Ma intorno, i rischi aumentano. La militarizzazione dello spazio è il fattore più preoccupante che sta allontanando russi e americani, coinvolti in una affollata corsa agli armamenti. Che, dopo la Cina nel 2007, ha visto anche Usa e India – e recentemente la Russia – sperimentare lanci di missili per distruggere satelliti.
Guerre stellari che impongono un ritorno a regole e impegni comuni. Il Trattato OST del 1967 (Outer Space Treaty, definito all’Onu e firmato tra i primi da Usa e URSS) invita all’uso pacifico dello spazio e proibisce il posizionamento di armi nucleari e armi di distruzione di massa, ma non di quelle convenzionali. Una rinegoziazione, o un nuovo trattato come propone Mosca, richiederebbe un passo indietro. Un ritorno allo spirito del Progetto Apollo-Sojuz, 17 luglio 1975: la prima missione internazionale e il primo aggancio tra due navicelle. La prima stretta di mano nello spazio, tra Tom Stafford e Aleksej Leonov.