Avvenire, 7 dicembre 2021
Le spese militari mondiali aumentano sempre
È una corsa sfrenata all’autodistruzione, segno dei tempi duri che ci attendono. Dal 2017, le spese militari mondiali stanno aumentando costantemente, in vista di guerre venture fra giganti convenzionali. Gli acquisti di armi crescono, come i costi per produrle e acquistarle. E, così, nel 2020, mentre l’economia globale pativa gli effetti della pandemia (-3,1%), il giro d’affari dei primi 100 gruppi produttori di armamenti è lievitato dell’1,3%, generando 531 miliardi di dollari di profitti (470 miliardi di euro). Sono dati certificati dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri).
Due postille delineano bene lo scenario: mentre il Covid malmenava gli indicatori economici di tutti i Paesi, i mercanti di armi hanno continuato a fregarsi le mani. Dal 2015, non hanno fatto che incassare sempre più, incamerando un +17%. I cinesi sono ormai secondi dietro a quelle americani, entrambi galvanizzati da mercati interni giganteschi. Stati Uniti e Cina rivaleggiano su un piano quasi egualitario: nella ricerca e sviluppo di nuove armi investono cifre da capogiro: 69 miliardi di dollari i primi e fra i 20 e i 22 miliardi di dollari i secondi. La Russia, terza, spende metà della Cina. I laboratori e i centri di ricerca che si lambiccano per sfornare prodotti bellici sempre più avveniristici, drenano a livello mondiale fra i 116 e i 123 miliardi di dollari l’anno.
Sono cifre che gridano vendetta di fronte ai problemi socio economici di gran parte dei ceti medi e bassi, comuni a tutti i paesi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se si eccettuano le aziende militari russe, che nel 2020 hanno perso il 6,5% del fatturato, e quelle francesi (-7,7%), le grandi imprese belliche di tutte le nazioni principali sono sempre cresciute. Cinque giganti americani
monopolizzano i vertici: Lockheed Martin, che produce i jet F-35, i missili più in voga e molto altro, ha consolidato il suo primato, con 58,2 miliardi. Precede Raytheon Technologies, seconda. Seguono Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics. La britannica Bae System è la prima europea, in sesta posizione. Fa meglio di Airbus, solo undicesima, e della nostra Leonardo (13a). Le cinesi Norinco, settima, Avic e Cetc, ottava e nona, sono seguite da L3 Harris, sempre americana, in vetta alla top ten. Le 41 imprese americane della Top 100 fatturano il 54% di tutte le vendite di armi del globo. Le 26 società europee si sono accaparrate il 21% delle vendite totali. Seguono la Cina, con il 13% del totale, e la Russia, con il 5%. Considerare unitariamente i paesi europei è tuttavia un po’ fuorviante, visto il nazionalismo del settore: è la Cina il secondo produttore di armi (7,1%), galvanizzata dall’autarchia produttiva e da giganteschi programmi bellici, tesi a colmare entro vent’anni il divario residuo di potenza con gli Usa. L’Italia del settore si piazza bene: il fatturato medio annuo del nostro comparto bellico si aggira fra i 15 e i 17 miliardi di dollari. Sono dati tragici, che peggioreranno nel prossimo futuro. Basti un esempio: il jet francese che sta vendendo in mezzo mondo è stato sviluppato investendo 43 miliardi di euro; il suo successore, franco-iberico-tedesco, richiederà almeno 80 miliardi. Sarà un pozzo senza fondo, profittevole solo per i mercanti di morte.