La Stampa, 7 dicembre 2021
I santi pop di David LaChapelle
Sulla strada tra Dio e il pop c’è David LaChapelle, santeria e santità: modelle che sfilano con le ali da angelo, madonne ritratte come regine degli scappati di casa, rapper con l’aureola, santi che non hanno alcuna voglia di stare in paradiso e una terra stanca di farsi mandare al diavolo. È un andata e ritorno continuo tra il sublime a cui aspirare e il bello a cui somigliare, ci si perde spesso, accecati dai colori carichi e sopraffatti da un rinascimento sotto steroidi.
Come se Disneyland si fosse impossessata di Caravaggio: si resta immersi in una creatività che guarda alla storia e gioca con tutto quanto è cultura popolare, musica, fumetti, spettacoli, moda. Tanta moda e tanta religione che sfilano insieme. Ora lo fanno in una chiesa, nella Cappella Palatina del Maschio Angioino, a Napoli, dove 42 foto, tre inedite, raccontano una carriera di soli acuti, come una canzone dei Bronsky Beat. La musica è quella giusta perché nella mostra che apre domani e si chiama semplicemente David LaChapelle, si riparte dagli Anni Ottanta, con i lavori dei tempi in cui il futuro famoso fotografo lavorava con Andy Warhol.
Ha realizzato un polittico con le immagini create 40 anni fa, che effetto le ha fatto aprire quei cassetti?
«Le stesse emozioni di adesso, ci sono addirittura lavori che somigliano ai più recenti. Credo sia stato allora che le foto hanno iniziato a parlare e a voler dire moltissimo perché erano gli Ottanta, ci consumavamo e non pensavamo certo di stare in giro per molto. Eravamo convinti di non poter vivere a lungo».
Invece è passato dalle serate allo studio 54 di New York alla natura selvaggia delle Hawaii e in mezzo ha fotografato ogni star che abbia interpretato lo spirito del tempo. E adesso?
«Mi sento un po’ come all’inizio, dentro una realtà che si modifica rapidamente e che si è fatta fragilissima. A metà degli Ottanta abbiamo affrontato l’Aids, in un attimo tutto è diventato precario. Ballavamo e abbiamo avuto paura. Ora, di nuovo, sappiamo tutti benissimo quanto la vita può stravolgerci da un giorno all’altro e chissà se abbiamo finalmente capito che dobbiamo cambiare noi».
La pandemia non ci ha cambiato?
«La pandemia è solo un time out».
Quindi non abbiamo imparato nulla?
«No, ma questo mondo non ci lascerà scelta».
Nella sua carriera c’è un prima e un dopo? Prima la pubblicità, il fashion e poi i temi più eterei, la foresta, l’ambiente, oppure è sempre lo stesso universo che si muove dentro all’obiettivo?
«La spiritualità entra nell’immaginario contemporaneo, una sorta di anima materializzata, certi miei scatti li vedo come sculture viventi».
Quanto ci mette a costruire un set, a portare la visione nella realtà?
«Dipende, anche dei mesi».
Che cosa è pop oggi, nel XXI secolo?
«Più che di pop culture oggi dovremmo parlare di vox populi, è tutto in quello che si dice, in quanto rimbalza e incontra, quanta attenzione produce, quello che diventa virale, quello che circola, quello che tutti vedono su Netflix. Si fa fatica a tirar fuori qualcosa che si impone. C’è sempre il chiacchiericcio di fondo».
Il popolare è sempre stato condiviso e chiacchierato.
«Sì, ma, per esempio, Stevie Wonder era pop e resta tale, si è fatto notare anche se cantava nello stesso tempo dei Beatles. Riposto spesso le foto fatte con lui. Ha creato della grandissima musica pop, è un gigante».
Britney Spears è libera di riprendersi la sua vita. Lei l’ha fotografata in catene.
«L’ho seguita dall’inizio, sono stato una presenza costante, album dopo album ed è stato un viaggio interessante. Non so se c’era una qualche forma di premonizione o di denuncia in quelle foto. Si è detto anche troppo, lasciamola davvero libero di essere chi vuole».
Nel suo lavoro ci sono anche tanti nudi, ora c’è una diversa sensibilità sul tema, li guarda con occhi diversi?
«No, non ho mai sfruttato un corpo, l’ho sempre celebrato. Ho un’idea michelangiolesca del fisico, è il trionfo della natura e della bellezza, il tocco divino. In mostra c’è Miley CyMMrus, nuda, in prigione e non inseguivo certo un richiamo sensuale quando ho pensato al soggetto. Questi corpi sono svestiti ma non sono i protagonisti, raccontano un’intimità che non è mai voyeurismo, è scoperta».
Ha firmato l’immagine diventata poster della serie «The Ferragnez». Chiara Ferragni e Fedez sono il pop del 2021?
«Ogni epoca ha i suoi punti di riferimento e ogni società prova a specchiarsi in quel che la soddisfa, la coinvolge».
Sta dicendo che questa società è superficiale?
«Lo è, anche se io con questo lavoro mi sono molto divertito, non è questo il punto è che consumiamo quel che ci piace molto rapidamente. La gente si stufa, passa ad altro: non è colpa di chi diventa famoso oggi, solo che il modo in cui si diventa celebri è molto differente. È un processo in costante evoluzione, io sono cresciuto in un’epoca di leggende. Ecco, ora chi è molto seguito difficilmente può ambire a quello status e nemmeno gli o le interessa. Comunque sul set dei Ferragnez e ho avuto pure molta libertà di gestire la scena».
Non è sempre libero di approcciare una foto come crede?
«La moda, la pubblicità, le cover dei giornali e qualsiasi lavoro su commissione mi servono per finanziare la mia arte. Li faccio e passo ad altro, a progetti come questa mostra di Napoli. La libertà non è un problema, me la prendo quando ne ho bisogno. Quando conta».
Come ha trovato l’Italia?
«Vibrante e sempre bella. Ci ho trovato un sacco di energia».