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 2021  dicembre 07 Martedì calendario

I gesuiti all’assalto

Le Riduzioni, vale a dire le missioni che i gesuiti organizzarono in America latina per convertire e «civilizzare» la popolazione indigena dei Guaraní, furono un esperimento straordinario. Tutto si svolse nell’arco di centocinquant’anni, tra l’inizio del Seicento e la seconda metà del secolo successivo. Le Riduzioni si estendevano su un territorio vasto situato tra gli attuali Stati del Paraguay, dell’Argentina e del Brasile. Furono, nella controversa storia delle colonizzazioni, qualcosa di insolito in cui la missione d’impronta spirituale e dal forte tratto comunitario ebbe la prevalenza su ogni altra. Ai gesuiti, alla metà del Settecento, fu poi mossa l’accusa di essersi ritagliati quel territorio per esercitare su di esso «una giurisdizione indipendente e priva di controlli», allo scopo di «accumulare enormi ricchezze ad esclusivo beneficio della Compagnia». Ma le cose non stavano così. Nel 1767 i gesuiti furono espulsi e quell’esperienza unica nella storia ebbe termine. La ripercorre adesso Gianpaolo Romanato in un affascinante libro, Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti, edito da Morcelliana. 
Romanato prende le mosse da alcuni dati ormai acquisiti. Nelle Americhe «conquistate» dagli europei, le missioni furono il solo luogo in cui gli «indiani» progredirono anziché regredire. Altrove furono marginalizzati, tutt’al più relegati a ruoli servili: «Solo nelle Riduzioni poterono svilupparsi, rendersi (relativamente) autonomi, autogestirsi diventando artigiani, operai, mercanti, soldati, musicisti, agricoltori, allevatori, amministratori». L’unica strada loro preclusa fu quella del sacerdozio («ciò che», osserva Romanato, «indubbiamente suscita qualche interrogativo»). Ma, a parte questo legittimo dubbio, tutto il resto fu, per l’epoca, qualcosa di eccezionale. 
La prima descrizione organica di queste missioni fu pubblicata a Venezia nel 1743 ad opera del più famoso storico italiano di quegli anni, Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Il libro di Muratori, Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (Sellerio), si basava su alcune lettere di padri ignaziani che operavano in Paraguay, nonché sulla relazione del gesuita Gaetano Cattaneo, partito da Cadice nel dicembre del 1728 e giunto un anno dopo, nel dicembre 1729, a Yapeyú (oggi nella provincia argentina di Corrientes). Testi «degni di fede», certo, ma risalenti a oltre dieci anni prima che Muratori si accingesse alla propria opera. «A me sembra», scriveva Muratori, «che la sola cristianità del Paraguai goda di singolari privilegi, che sopra d’essa piovano tutte le benedizioni di Dio». Anche se, fa notare Romanato, a Muratori «mancavano notizie fresche, che gli avrebbero dato informazioni di tutt’altro segno». All’epoca, in realtà, le missioni, anziché essere benedette da Dio, «erano in gravi difficoltà e prossime alla disfatta». Perché?
I portoghesi avevano fondato nel 1680 Colonia del Sacramento sul Rio de la Plata, di fronte a Buenos Aires. Questo fortino, scrive Romanato, «esercitò una costante pressione sugli spagnoli, con un’azione di logoramento militare e commerciale che costrinse i governanti coloniali ispanici a ripetuti interventi armati per fare sloggiare i rivali». Interventi in cui furono impegnate truppe Guaraní. Indigeni che, già da tempo, venivano usati come manodopera per le imprese di urbanizzazione. In rivalità con i portoghesi, le autorità spagnole impegnarono con sempre maggiore frequenza i Guaraní, oltre che in operazioni militari, in lavori pubblici quale, per esempio, l’edificazione di Montevideo. Solo nei 50 anni che vanno dal 1680 al 1730, calcola Romanato, «furono più di quindici i loro interventi, con contingenti anche pesanti, di quattromila uomini, che dovevano spostarsi molto lontano». In diversi casi le trasferte tennero gli indigeni per più di un anno distanti dalla terra d’origine e dagli insediamenti dei gesuiti. Durante queste operazioni i Guaraní «entravano in contatto con gente estranea e subivano influssi che inevitabilmente allentavano l’ordine morale sul quale si fondava la vita disciplinata delle missioni». A questo si aggiunsero fughe e diserzioni.
Ad «allargare il fossato attorno alle missioni» fu poi l’impiego di un grosso contingente armato Guaraní (forse dodicimila uomini, migliaia dei quali morirono in combattimento) in appoggio ai regolari spagnoli per sedare la pericolosa rivolta «comunera», scoppiata ad Asunción e nei centri paraguaiani coinvolti in questo genere di sommosse nel corso del decennio 1724-1735. Tale ribellione – «nella quale», secondo Romanato, «si può individuare un’anticipazione dell’indipendentismo paraguaiano» – era ispirata dal mondo dei coloni creoli insofferenti delle eccessive protezioni concesse dal governo agli indigeni e decisi a far valere i propri diritti sulla terra, sulla manodopera indiana, sulle vie di comunicazione». E a farlo «adottando forme avanzate di autogoverno locale». Talché la «rivolta comunera» è oggi considerata dagli storici «uno degli episodi fondanti dell’identità del Paese».

Così, per stare alla Spagna, il fatto che gli indigeni fossero stati chiamati a difendere le ragioni di Madrid scavò «un baratro tra le missioni e l’ambiente locale». Un baratro che nei decenni successivi non fu più possibile sanare. Inoltre, «gli aspetti anticipatori della futura rivolta antispagnola e anticoloniale, fecero apparire la scelta legalitaria e lealista delle missioni come un’opzione reazionaria e antistorica». L’isolamento dei gesuiti e dei Guaraní – proprio in ragione della loro lealtà alla Spagna – divenne in questo modo totale. E le Riduzioni «rimasero appese solo alla copertura governativa».
Di tutto questo si rese conto il generale dei gesuiti Franz Retz (in carica dal 1730 al 1750). Come risulta da alcune sue lettere «piene di pessimismo» circa quelle isole di apparente «cristianesimo felice». La realtà era molto meno felice di quel che poteva apparire, come si deduce da una missiva di Retz nella quale si accenna agli «innumerevoli mali che devastano queste missioni» (15 luglio 1737). Ma il generale Retz si guardò bene dal denunciare pubblicamente quel che stava accadendo nelle Riduzioni. D’altronde, lo giustifica Romanato, «dire all’esterno solo il positivo e tacere il negativo era sempre stato un abito dei gesuiti, fin dall’inizio della loro storia». Nella vita dell’Ordine «c’erano sempre cosas secretas che andavano centellinate, taciute all’esterno, gestite riservatamente».
Gli studi dei demografi (unanimi) hanno poi dimostrato che solo nelle missioni gli indigeni conobbero crescita anziché crollo demografico. Furono soppresse perché erano diventate «pericolose concorrenti economiche» dei portoghesi brasiliani («spesso in combutta con gli spagnoli che vivevano nelle zone di confine»). Oltretutto la guerra alle Riduzioni era un tassello fondamentale per la campagna in vista della soppressione della Compagnia di Gesù. Anche Claudio Ferlan, nel libro I gesuiti (il Mulino), attribuisce le colpe principali di quel che accadde al Portogallo. O meglio al marchese di Pombal, il potentissimo primo ministro del re Giuseppe I, il quale «riteneva che sbarazzandosi degli ignaziani avrebbe dimostrato la potenza del Portogallo davanti alla Santa Sede». E avrebbe «segnato un punto decisivo nella lotta contro la superstizione in cui era impegnato in prima persona, da fervente sostenitore delle idee illuministe». 
Va detto però che tra quegli indigeni si contarono a metà Settecento molti morti. A provocare tra i Guaraní alcune morie furono alcune epidemie di vaiolo che, secondo Romanato, vanno tenute nel conto di «un tragico evento naturale contro il quale la medicina del tempo nulla poté». Ma non è un argomento utilizzabile per attaccare i missionari «anche se», concede lo studioso, «è vero che concentrando la popolazione fu in qualche modo favorita la diffusione e la virulenza del contagio».

A decidere le sorti dello «Stato dei gesuiti» fu infine il Trattato di Madrid, sottoscritto «quasi in segreto» il 13 gennaio 1750 da Spagna e Portogallo. Trattato che aveva lo scopo di «porre fine a due secoli di tensione fra i due regni definendo una volta per tutte i confini tra l’America portoghese e quella spagnola. Il «territorio riduzionale» ne ricevette un colpo definitivo. A nulla poté il padre Lope Luis Altamirano, lì spedito in tutta fretta con il preciso incarico di sovrintendere ai trasferimenti degli indios e alla consegna delle missioni ai nuovi proprietari. Si verificarono anche episodi di rivolta. Ma «la resistenza degli indios, anziché indurre alla cautela, inasprì gli animi». Nessuno voleva «cedere davanti a un pugno di “selvaggi”». Tutti, spagnoli e portoghesi, «addossarono ai gesuiti la responsabilità della rivolta considerandoli i veri e occulti ispiratori dei Guaraní». Stretto tra l’incudine e il martello, Altamirano, «al quale erano state impartite istruzioni che non ammettevano scappatoie», non poté fare altro, secondo Romanato, che appoggiare l’intervento armato, schierandosi con i carnefici.

I Guaraní si affidarono allora ad un abile comandante militare, Sepé Tiarajù, che guidò una sorta di guerriglia che durò fino al febbraio del 1756 quando Tiaraiù venne ucciso. Privati del loro capo, gli indios «crollarono e furono massacrati, lasciando sul terreno circa mille e cinquecento morti e centinaia di prigionieri». In seguito, nel giro di qualche mese, le Riduzioni si arresero.
A pagare questo conto terribile furono, oltre agli incolpevoli Guaraní, i gesuiti «che tutti ormai consideravano infidi e traditori, anche se non sono mai state provate loro responsabilità nella sollevazione indiana». I dubbi che da tempo serpeggiavano in Europa su quella strana, incredibile «repubblica di selvaggi» costruita dai gesuiti nell’America del Sud e sulle ricchezze che, lontano da tutti, nascondeva, «trovarono nuova linfa dopo l’ancora più strana rivolta dei Guaraní che “non potevano” avere agito da soli, di loro esclusiva iniziativa». Ad alimentare sospetti e accuse furono oltretutto ex gesuiti, «probabilmente animati da rancori più che da argomenti». Impietoso fu anche l’unanime giudizio sulla missione di Altamirano «la cui condotta priva di flessibilità», spiega Romanato, si giustifica solo «con il fatto che egli sapeva bene quanto tenue fosse ormai il filo che teneva in vita la Compagnia». Il 2 aprile del 1767, infatti, «giunse la mazzata definitiva» con la fine dell’Ordine in Spagna; sei anni più tardi, nel 1773, la Compagnia di Gesù venne soppressa dalla Santa Sede anche canonicamente. E con essa anche i Guaraní furono definitivamente inghiottiti dalla storia. 
Molto tempo dopo, un parlamentare scozzese, Robert Cunninghame Graham (1852-1936), scrisse un libro, L’Arcadia perduta. La storia dei gesuiti in America del Sud tra il XVII e il XVIII secolo (Castelvecchi), in cui fece a pezzi il «pregiudizio anglosassone» secondo il quale le colonie spagnole erano state mal amministrate e i conquistatori ispanici si erano dimostrati orribili «macellai motivati dall’unico piacere del sangue». Notò, Cunninghame Graham, che dopo l’espulsione dei gesuiti dalla Spagna, nonostante gli insulti e il «fango gettato deliberatamente» sulla Compagnia, nessuno (o quasi) aveva avuto «qualcosa da ridire sulle azioni dell’Ordine durante il suo lungo governo in Paraguay». Nessun gesuita fu mai messo con le spalle al muro, «nessun crimine fu loro addebitato». Persino i motivi della loro espulsione «non furono mai forniti al mondo». Certo è che dopo pochi anni dalla loro uscita definitiva dalle missioni tra l’Uruguay e il Paraná, proseguiva Cunninghame Graham, «la confusione dilagò». In vent’anni la maggior parte delle missioni fu abbandonata e prima ancora che di anni ne fossero trascorsi altri trenta «non rimaneva più alcuna traccia della loro passata prosperità». Ma è giusto, adesso, che questa traccia riprenda il posto che le spetta nei libri di storia.