Corriere della Sera, 7 dicembre 2021
Ottant’anni fa l’attacco giapponese a Pearl Harbor
WASHINGTON La domenica era iniziata come sempre sulla portaerei Oklahoma, ormeggiata nel porto di Pearl Harbor, nelle Hawaii. L’alzabandiera, con la musica della banda di bordo. Poi la messa celebrata da un prete cattolico dell’Iowa. Una bella mattina di sole piena di promesse: il riposo, la libera uscita. Marinai giovanissimi come i gemelli Leo e Rudolph Blitz che si erano arruolati ancora sedicenni nel 1938, lasciando altri quattro fratelli e sei sorelle nella casa di due stanze costruita a Lincoln, nel Nebraska, dal capofamiglia, Henri, un immigrato di origine tedesca.
È il 7 dicembre del 1941. Alle 7.55 oltre 350 aerei giapponesi si avventano su una delle principali basi navali americane. Operazione «Tora, Tora, Tora» (letteralmente: tigre; ma anche un acronimo per attacco lampo). In quel momento, a Washington, sono ancora in corso i negoziati tra diplomatici statunitensi e del Sol Levante. Si discute di Cina, dell’embargo petrolifero imposto dagli Stati Uniti per frenare l’avanzata dell’Impero nipponico. Ma nella baia lontana, in quel puntino in mezzo al Pacifico, si consuma il massacro: più di 2.400 morti, tra militari e civili, 1.178 feriti, 12 navi da guerra affondate, compresa l’Oklahoma.
Le fiamme sono ancora alte, arrivano i primi dispacci. Il premier britannico Winston Churchill sta già chiamando il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. I due si erano conosciuti a Londra nel 1918. «Non ho mai corteggiato nessuna donna, come ho fatto con Franklin», racconterà poi Churchill nelle sue «Memorie della Seconda Guerra Mondiale». «Franklin, è vero che i giapponesi vi hanno attaccato?». «Sì Winston, siamo nella stessa barca adesso». Poi l’inconfondibile tocco di pragmatismo, quasi cinico, del «prime minister» che da due anni stava cercando di convincere Roosevelt a entrare nel conflitto: «Questo certamente semplifica le cose. Dio sia con voi». Il giorno dopo il presidente degli Stati Uniti scrive il messaggio per il Congresso. Ma la prima bozza non gli piace. Troppo rigida, troppo «politica». Ci pensa su una notte. Il 9 dicembre gli americani e il mondo lo ascoltano per radio. La voce è ferma: «Il 7 dicembre del 1941 non è una data che rimarrà nella storia del mondo; ma è una data che resterà per sempre nell’infamia». È un passaggio cruciale: l’11 dicembre Hitler dichiara guerra agli Stati Uniti. Ma l’«infamia» di Pearl Harbor fu anche una frustata, un trauma per l’America profonda. Centinaia di uomini spazzati via, a tradimento. Nomi, storie sconosciute per decenni. Fino a quando, nel 2015 il Pentagono non ha avviato la ricerca per identificare i 388 morti sconosciuti sui 429 uccisi sulla portaerei Oklahoma e sepolti nel cimitero di «Punchbowl» di Honolulu. Il programma è terminato proprio in questi giorni, alla vigilia delle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario.
In sei anni i resti umani sono stati confrontati con cinquemila campioni di Dna. «È stato un lavoro che ci ha dato sollievo, emozione e tristezza nello stesso tempo», ha raccontato al Washington Post Carrie LeGarde, responsabile del progetto. La memoria collettiva si è riappropriata almeno dell’identità di 355 vittime. Tra loro ci sono anche i gemelli Blitz. Per oltre 70 anni il capofamiglia Henri e poi i figli, i nipoti hanno custodito due medaglie d’oro in una vetrinetta del soggiorno. Ora c’è una lapide con il ritratto dei due ragazzi in divisa, l’immagine di un’America lontana che oggi tornerà a parlare alle nuove generazioni nella cerimonia organizzata a Pearl Harbor.