Corriere della Sera, 7 dicembre 2021
A casa della famiglia di Patrick Zaki
Julie abbaia alla porta. «Fa così da quando è stato arrestato Patrick. Spera che torni». Pieno Delta del Nilo, un centinaio di chilometri a nord del Cairo. Per gli appassionati di Storia, qui nel 1250 si scontrarono i crociati di Luigi IX con le truppe dell’emiro Fakhr al-Dan ibn al-Shaykh. E sempre qui, durante la guerra dello Yom Kippur, venne combattuta una delle battaglie aeree più lunghe della Storia moderna – 53 minuti – tra israeliani ed egiziani.
Mansoura, casa dei primi anni di vita di Patrick. Basta andare sull’altra riva del fiume per arrivare al tribunale della città, dove oggi lo studente dell’Università di Bologna comparirà di fronte al giudice.
Sono 669 giorni che Patrick non torna. «Quando lo hanno arrestato nel febbraio 2020 abbiamo aspettato per ore all’aeroporto del Cairo sperando di vederlo arrivare, aveva appena passato i controlli, “tutto bene mamma”, mi ha detto per telefono. Poi lo hanno fermato». Hala entra in camera di suo figlio. Impiegata statale, ha le mani forti, grandi. Indica un trolley verde: «Era quello che ha usato Patrick di ritorno dall’Italia». Sull’armadio, l’adesivo dello Zamalek, dentro la maglia bianca e rossa. Il calcio, la sua passione, fin da quando aveva 4 anni. «Da piccolo, essendo copto, non gli permettevano di giocare. Immagino sia per questo che abbia questa sete di giustizia e abbia iniziato a lavorare e impegnarsi sempre di più per il rispetto dei diritti umani».
Mamma Hala non dorme da due giorni, si sforza di fare un sorriso. «Non era nemmeno adolescente quando ha iniziato a fare volontariato. Con tutti, con la Chiesa. Ma non solo. Per i senzatetto, per i meno fortunati». Odora di buono, di pane appena sfornato e di pavimento lavato da poco, la casa di Patrick, quella da cui se n’è andato alla fine del liceo per trasferirsi al Cairo. «Quando nel 2011 eravamo preoccupati per lui, per gli scontri in piazza Tahrir mi rassicurava. “Tutto bene mamma, saluto gli amici e torno”. Diceva sempre così Patrick. “Tutto bene”». Poi l’Università al Cairo. Farmacia. «L’ha scelta perché voleva aiutare gli altri».
In tribunale
Oggi in aula la sua avvocatessa parlerà dell’articolo per cui lo studente rischia 5 anni
Julie ricomincia ad abbaiare. Papà George, ingegnere, un omone di oltre 100 chili, varca la soglia. «Se avesse aperto davvero una farmacia saremmo finiti in rovina perché avrebbe dato tutto gratis». Nonostante il diabete e la fatica, trova la forza di sorridere e ridere George Zaki. «Non ha scelto l’Italia per una ragione particolare, era stato in Germania, doveva andare in Spagna». Poi il master a Bologna. E l’arresto al rientro del primo semestre.
«In carcere ha freddo, nemmeno una coperta, ha ancora fortissimi dolori alla schiena. Non gli lasciano i libri per continuare a studiare». Marise si siede anche lei sul divano blu. La sorella minore che frequenta Business Administration e ha i capelli neri come l’ebano. «Io sono orgogliosa di quello che ha fatto, dei suoi studi a Bologna sulla parità di genere, siamo tutti orgogliosi di lui», spiega mentre accarezza Julie. Sulla mensola, vicino all’ingresso, le foto dei due fratelli, in mezzo due crocifissi. Fuori la Chiesa di San Giorgio. Un gruppo di donne con il velo nero va a fare la spesa. Il muezzin inizia a cantare. Patrick è accusato per un articolo sui copti. Oggi in aula l’avvocata Hoda Nasrallah – anche lei della Ong Eipr con cui Patrick ha collaborato e che si sta occupando della difesa – parlerà di quell’articolo pubblicato da Zaki sul sito Daraj per denunciare le persecuzioni ai danni della minoranza. Un pezzo per cui ora rischia 5 anni di carcere con accuse che si vanno ad aggiungere a quelle formulate dopo il suo arresto (si parla di istigazione al terrorismo punibile con l’ergastolo) ma che, dopo quasi due anni, non è dato sapere se siano ancora in piedi. «È stato arrestato come migliaia di altri, per fare paura, impedire la libertà di parola», gli amici del Cairo. A Bologna e in tutta Italia, intanto, le piazze si mobilitano.
Marise apre l’album di famiglia, i ricordi si mescolano. La tessera di quando andava al liceo, la tazza che gli ha regalato la mamma, il premio in matematica. Ora suo fratello è stato trasferito dalla prigione di Tora al Cairo a quella di Mansoura per l’udienza. È vicino. Ma è un inferno ancora peggiore dove «non gli fanno avere né acqua né cibo». Papà George guarda nel vuoto. Poi alza la testa. «Mia nonna, la bisnonna di Patrick, Adel, era per metà italiana. Aveva sposato un libanese ma parte della sua famiglia veniva da Napoli. Chissà se un giorno andremo con Patrick in Italia». Poi il capo si abbassa di nuovo. «Io non ci spero più».
Il sole inizia a tramontare. Una manciata di ore all’udienza. Sulla strada per il Cairo, un finto faraone campeggia sulla rotonda vicino al cavalcavia in costruzione. Ricorda il punto dove hanno ritrovato Giulio. La luna è sottile come una falce. Intanto, a casa di Patrick, Julie ringhia piano.