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 2021  dicembre 07 Martedì calendario

Biografia di Massimo Ferrero

Fabrizio Roncone, Corriere della Sera
Si annunciò da lontano, con la sua risata cimiteriale. 
Un albergo a Castelfranco Veneto, tavolata di giornalisti e procuratori sportivi, una cena di qualche tempo fa. 
Ma guarda: è arrivato Viperetta. 
Lui: spettinato e allegro. Però anche sfacciato: «Me siedo solo pe’ favve un favore». Elegante nella sua giacca blu di sartoria: «Tocca un po’: sai questo come se chiama? Ca-che-mi-re. Nun te dico quanto costa, sinnò me svieni». Visionario: «Dopo aver fatto vince lo scudetto alla Samp, me compro la Roma e ve regalo la Champions». 
Chiede una bottiglia di Amarone, i camerieri – sussiegosi – portano anche un vassoio fumante di risotto al radicchio. «No, aspe’: er vino è bbono, ma ’sto pappone ve lo magnate voi. Io ciò fame: se po’ ave’ ’na bella ajo e olio?» (urlando). Gli squilla il cellulare, come suoneria ha «Nessun dorma»: «So’ chic d’animo, pure se so’ nato a Testaccio», nel 1951, padre controllore sui bus, madre ambulante. Ma, al terzo bicchiere di rosso, Massimo Ferrero racconta della nonna, Antonietta Prosperini. «Santa donna. Faceva l’avanspettacolo all’Ambra Jovinelli, il Dna dell’attore è un dono suo. Da vecchia teneva tutti i soldi sotto er cuscino. Io lo sapevo, je davo un bacetto e intanto, ogni volta, me fregavo mille lire. Me ricordo l’ultima cosa che disse, sul letto de morte: Massimé, i sordi l’ho spostati nel cassetto». 
Un uomo cinico ai limiti della ferocia, arrogante – «Nun giro mai co’ meno de 5 mila euro in tasca: e non dico fregnacce, eccoli» – ma anche capace di tenerezze inaudite. Racconta che, giovanissimo, dopo aver fatto la comparsa con Giuliano Gemma in qualche film a Cinecittà, finse di avere la patente per diventare l’autista dell’attore Silvio Spaccesi. «Sul set razziavo tutti i cestini: poi li portavo a casa e ci facevo cenare i miei tre fratelli». 
Piccoletto, tutto nervi, di pensiero furbo e velocissimo. Diventa direttore di produzione, poi produttore esecutivo. Un cameo nel film Camerieri, dove è Sem, il venditore di levrieri che schiaffeggia Diego Abatantuono. Prima di mettersi in proprio, lavora sui set di Mario Monicelli e Liliana Cavani, a lungo con Tinto Brass. «Serena Grandi, nei panni di Miranda, era strepitosa. Na’ volta capito nel suo camerino e trovo lei tutta nuda, addosso solo na’ vestajetta. Se volta, e me dice: “Vipere’, che fai, guardi? Mortacci tua, je rispondo: nun solo guardo, vorrei pure tocca’. All’epoca però aveva una storia con Giovanni Bertolucci, e io so’ all’antica, porto rispetto». 
Tre relazioni, una con matrimonio: si sposa con Laura Sini, ereditiera di un’azienda casearia del Viterbese. Sei figli in totale. Gli ultimi, avuti dalla truccatrice Manuela Ramunni, si chiamano Rocco Contento e Oscar. La più grande, Vanessa, è ai domiciliari. 
Le immagini dei tigì che danno la notizia dell’arresto per bancarotta si sovrappongono al ricordo di quella cena. Di Viperetta che sta prima nel ruolo di efferato affabulatore, e poi di presidente della Samp: «Garrone non me l’ha regalata. Me so’ accollato 25 milioni de debiti, ne ho messi altri 15 per l’aumento di capitale, più altri spicci. In tutto fanno 50 pippi. Ma la felicità di poter considerare i tifosi blucerchiati come una nuova famiglia, non ha prezzo». 
I tifosi, in realtà, lo detestano da sempre. 
I tifosi hanno in testa un altro presidente: Gianluca Vialli (vediamo se adesso, chissà). 
In genere Viperetta commenta dicendo: «Nun me rompete li cojoni». 
Fare finta di niente, sghignazzare in faccia alla vita. Nel bene: come quando con un colpo di mano acquisisce le 60 sale (tra cui il gioiello romano dell’Adriano) di un altro meraviglioso caduto come Vittorio Cecchi Gori. E nel male: quando patteggia una condanna definitiva di un anno e 10 mesi per il fallimento – vizio antico – della compagnia aerea Livingston Energy Flight. 
Però quella cena. 
Che cena. 
Al cameriere che gli chiede: «Gradisce un superalcolico, presidente?». Lui risponde: «Presidente un cazzo». Il cameriere si allontana mortificato. E allora Viperetta gli urla dietro: «Ammazza, aho’! Ma qui in Veneto ve offendete facile, eh? Dai, torna qua, damme un bacetto...». E quello torna, mezzo contento, e si fa fare pure un autografo. 
Così Viperetta butta giù un paio di segnacci su un tovagliolo di carta e attacca a raccontare la solita gag – vera, falsa, forse solo verosimile – di quella volta che andò a Cuba per creare una casa di produzione cinematografica. Aveva fatto le cose in grande, dice. Una spedizione enorme: luci, carrelli, attrezzi, persino i ciak. «Poi arriva il giorno dell’inaugurazione e io me porto du’ fotografi. Così, appena vedo Fidel Castro, me fiondo e gli afferro la mano pe’ famme immortala’. Solo che, appena me volto, i fotografi nun ce stanno più. Allora me metto a grida’: aho’, a stronzi, ‘ndo state? E Fidel che me tirava dicendo: Mollame la manos, por favor, molla te dicos...». 
Una cena memorabile. 
Stiamo per alzarci, è notte fonda, ma uno chiede: «Presidente, un’ultima cosa: davvero fu Monica Vitti a darle il soprannome di Viperetta?». Lui allora diventa improvvisamente serio. «No. La storia è diversa: ero pischello, e a Cinecittà, una sera, un costumista omosessuale mi si avvicina e mi sussurra all’orecchio: lo sai che il cinema è fatto di lenzuola? Allora io je dico che le lenzuola me le rimbocca solo mia madre... Ma mentre gli sto sopra, e con una mano lo tengo fermo, e con l’altra lo prendo a pizze, quello ridacchia e mi urla: sei una Viperetta, ecco quello che sei! Eh... Lo so da solo: questa nun fa tanto ride».

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Enrico Sisti, la Repubblica
Tutto nel nome, anzi nel soprannome: “er Viperetta”, regalo di un costumista isterico subito ripreso e certificato da Monica Vitti. Massimo Ferrero non si è mai tenuto dentro alcunché, mai che avesse rifiutato una chance, a costo di aggirare il sistema. O le sue regole. E senza mai smentire le sue maniere ardite, quel suo modo di fare affari nascosto da una provvidenziale tenebra. Una vita spericolata, sin da quando, raccontava, andava su e giù per gli autobus della Roma di fine anni 50, come un borseggiatore in erba, lesto di mano, con gli occhi puntati sul futuro, fosse anche un portafoglio altrui. Era povero, non era bellissimo, ma indubbiamente ci sapeva fare, con mamma dietro il bancone del mercato rionale. Fatti furbo e guarda avanti.
Ferrero è un romano di Testaccio che ha presto imparato a barcamenarsi in una vita difficile, cinematograficamente sua, dolce raramente, costellata di capriole umane e professionali, un uomo da circo o, come ama definirsi, un “artista di strada”. Il suo nome è legato al grande schermo che ha frequentato cominciando a nascondersi nelle casse degli abiti di scena quando aveva bisogno di entrare a Cinecittà di straforo, così, un po’ per sfottere il mondo e un po’ per ottenere una genericata col suo amico Giuliano Gemma, sognando Hollywood pur restando saldamente e romanescamente ancorato al suolo, ai sampietrini. Che non sia uno qualunque lo raccontano le precoci peripezie, iniziate corteggiando la figlia di una guardia carceraria e finendo per qualche tempo in una casa di correzione per minori: «Lo chiamavano riformatorio ma era un carcere vero e proprio e se non avessi già preso così tanti schiaffi da mia madre e da mio padre sarei entrato tondo e uscito quadrato». Dice di aver rischiato ogni giorno la vita, mettendosi per esempio a cavalcioni sulla balaustra della terrazza condominiale, dove si nascondeva con la sua Rita a fare l’amore tra le lenzuola stese.
Ferrero diventa direttore di produzione giovanissimo, per A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato. A soli 23 anni impara a confrontarsi con i grandi volti del cinema, che seduce con la sfrontatezza dei modi, fino a diventare un produttore vero e proprio. Vive un po’ dovunque, ma Roma resta centrale. Nella primavera del 2020, a inizio pandemia, fa la spola con la sua casa di campagna, ma non riesce a staccarsi da Roma. Il “Viperetta” dotato del suo antidoto vive in una casa nascosta all’interno di un immenso cortile alle pendici di Piazza di Spagna: è lì che vanno e vengono ispirazioni, fantasie, messaggi, è lì che si allarga il suo amore per la Roma, lì che nasconde i suoi guai con la giustizia, lì che cerca di conservare un rapporto con i sempre più diffidenti tifosi della Samp, di cui è stato, per sette anni e sino a ieri, il presidente funambolico, irriverente e in un certo senso irrisolto.
La bomba professionale, dopo aver calcato i set (persino come attore in un paio di occasioni), arriva quando decide di mettersi in proprio con la Blu Cinematografica, che però non decolla mai. Indifferente ai passivi, nel 2013 si appropria di una catena di sale cinematografiche, molte delle quali appartenute a Vittorio Cecchi Gori, che chiamerà Ferrero Cinemas. Per volare meglio col nuovo progetto, aveva acquisito anche una compagnia aerea, la Livingston Energy Flight: ma fa bancarotta e viene condannato mentre diventa presidente della Sampdoria, nel 2014. Pochi mesi dopo l’insediamento, senza peli sulla lingua, suggerisce all’ex collega Massimo Moratti di cacciare «quel filippino», l’allora presidente dell’Inter Thohir. Con i suoi affari sterminati, con la sua franchezza distopica, con la sua aria da “gatto de Testaccio”, come lo chiamavano da ragazzino, è sempre sull’orlo del vulcano, fra diffide, multe, sequestri, accuse di abusi edilizi, evasione fiscale, sempre al limite, inclusi gli strascichi legali del suo matrimonio con Laura Sini, ereditiera di una azienda casearia. Con la Sport e Spettacolo Holding Ferrero controlla la Sampdoria, la Eleven Finance, la V Production e la Do & Go. Sino alla Ellemme Group che ha appena smosso la Guardia di Finanza. Le accuse di bancarotta sono per lui una consuetudine. Ma lui niente. Una sfinge. Spesso maschera il disagio con una battuta. Oppure con quella sua parlata intenzionalmente terra terra, come se nulla lo scalfisse (e forse è proprio così): «Questa casa di 300 mq? Mica è mia, col cavolo che me la compro». Non la compra forse perché gli è rimasta l’anima del nomade- In compenso, pur nella tempesta di tribunali che si occupano di lui, acquista case per i figli, che sono cinque e la più grande ha più di cinquant’anni.
Ora Ferrero è dentro. C’è già stato quand’era pischello. Magari a 70 anni da poco compiuti, si sentirà ringiovanito, avrà la sensazione di tornare ai tempi di Rita.

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Jacopo Iacoboni, La stampa
Il problema è che, lui per primo, non ha mai seguito il motto che ripeteva sempre: «Vola basso e schiva il sasso». Ha volato troppo alto e ha pigliato il sasso in faccia.
«Lo stanno trattando peggio di Totò Riina», lamenta il suo avvocato, e certo Massimo Ferrero non è Totò Riina. In carcere (minorile) però c’era già stato, adolescente irregolare, romano di Testaccio, pokerista e uomo di azzardi, un incrocio tra accuse degne dei furbetti del quartierino e un personaggio che non avrebbe sfigurato in Febbre da cavallo. Quando finì dentro da ragazzino s’era innamorato della figlia di un vigile, il quale non gradiva, un giorno Ferrero lo incontrò in piazza e gli diede uno schiaffone facendogli cadere il berretto. Furbo ma non furbissimo: dietro il pizzardone c’era una volante della polizia e Ferrero finì al gabbio. «Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio». «Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva "a Massimì… devi comincià, sei grande! "E io: "A ma’ ma io non fumo!". E lei: "Zitto e fuma!"». Eterno ritorno. Il padre era autista di autobus. La madre aveva un banco al mercato di piazza Vittorio all’Esquilino. Lui da Testaccio scappava lontanissimo, fin giù a Cinecittà, alla fine della Tuscolana, e non si sa letteralmente cosa facesse per giornate intere. Le prime comparsate, ma pure al carcere, appunto. «Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi, andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa’ er quajo, come si diceva». Ferrero faceva letteratura di questo suo passato dal riformatorio alla casa in piazza di Spagna, tipo che fosse amico di Giuliano Gemma, con cui scoprì Cinecittà. O i vari racconti sul suo soprannome, er viperetta. «All’inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto». Fece girare che il nome er viperetta gliel’avesse dato Monica Vitti quando lui la difese da un molestatore. Poi però lui stesso aveva anche raccontato una storia diversa, il nome gliel’appioppò un costumista gay di Cinecittà che gli diede della vipera quando lui rifiutò con forza certe avances, in un film che voleva essere pasoliniano: «Uno mi toccò il fondoschiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: "Sei una vipera, sei una vipera!"».
Verità o mitomania? Il problema è che con Ferrero le dimensioni realtà e cinema si sono a tal punto confuse da creare qualche leggerissimo problema di affidabilità anche nelle sue imprese, le cui accuse di bancarotta, che riceve adesso per il fallimento di quattro società in Calabria, paiono più che una nemesi un destino, a prescindere da come poi andranno i processi. «Io sono nato e cresciuto a Cinecittà dove la realtà e la fantasia si sono sempre fuse», dirà lui. Illuminante. Verità e bugie.
Ex giocatore di poker da bische romane, anche come imprenditore ha sempre cavalcato tra l’immagine autoalimentata del self made man de noantri, e lo spregiudicato raider di provincia, mai amato dai tifosi della Sampdoria, che aveva rilevato sette anni fa con 15 milioni di debiti dal petroliere Garrone e, a pensarci, non è neanche andata così male come altre sue libere intraprese. Solo che Ferrero rifiutò di venderla a una cordata guidata da Gianluca Vialli, e non è che la cosa sia stata presa bene dalla curva doriana. Pochi giorni fa, Ferrero ha ammesso che sta per gettare la spugna: «Dopo anni di attacchi calunniosi, e critiche pesanti, che io ritengo ingiustificate, comincio a essere stanco. Non della società, di fare il presidente. Ma della cattiveria nei miei confronti. Acquirenti all’orizzonte? Magari. Non ce ne sono. Fatemeli conoscere. Presentatemeli». L’amore quasi estetico per le belle donne potrebbe riempire pagine, senza però liberarsi mai da quel tragico complesso dell’infanzia povera, l’idea che chi non era come lui era un pariolino (come disse in tv a Panatta) e invece «per incontrare le donne dovevi vivere in un’altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno». Ha avuto una prima moglie da cui ebbe due figlie (i figli arrivarono poi a cinque con la seconda moglie e la terza compagna). Si è risposato con la figlia del proprietario di un’azienda casearia di Viterbo, che i soldi li aveva davvero. E per anni gestì con lei sei caseifici. Insomma, come dicono i viterbesi, "faceva il formaggiaro". Ma lui voleva essere ricordato come uomo di cinema e sciarpe di seta a pois, di doppi anelli alle dita del mignolo e di spettacolo, al limite di sport, inteso come tv. Nel ’98 fondò, con i soldi della moglie, la Blu Cinematografica, la sua società di produzione di film: inanellò una serie di buchi neri finanziari, tipo Libero burro o La carbonara, perdendo un miliardo di lire. Produsse cose come Tra(sgre)dire di Tinto Brass, film con Bonolis, o con la coppia Tognazzi/Izzo: la storia del cinema poteva attendere. Ma anche quella della gestione oculata di un’azienda.
Anche i suoi cinema romani, comprati con una nuova società, Farvem Real Estate, alcuni dei quali dal fallimento dell’impero Cecchi Gori, si portarono lo stigma di quel destino: ingiunzioni di pagamento, cartelle esattoriali, cause. Nel 2009, con un’altra scatola, FG Holding, si comprò una compagnia aerea di voli charter, la Livingston Energy Flight. Risultato: nel 2010 l’Enac sospese la licenza di volo alla compagnia, e il tribunale di Busto Arsizio ne dichiarò l’insolvenza. Non era più cinema, era realtà.

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Nicola Borzi, il Fatto Quotidiano
A Testaccio, il quartiere di Roma dov’è nato il 5 agosto 1951, si dice che a sapé fa’ la scena, quarcosa se ruspa, “a saper recitare qualcosa si mangia”. Di scene ne ha viste e recitate tante Massimo Ferrero, ma non tutte riuscite, come parrebbe dall’ultimo mandato d’arresto. I molti guai giudiziari tuttavia non hanno mai scalfito la sapida oratoria vernacolare e l’ego inversamente proporzionale alla ridotta statura fisica del self made man de noantri. È nota la sua fobia per i rettili, eppure per il carattere fumantino è soprannominato “er Viperetta”. Padre bigliettaio dell’Atac, madre casalinga, poca scuola, comparsa in un film a 7 anni, Ferrero – che si definisce “un artista di strada” – la domenica raccoglie i biglietti e li rivende come nuovi. Da adolescente sconta sei mesi di prigione, lui dice per aver fatto volare il cappello del padre di una sua fiamma, vigile urbano. Al carcere minorile lo chiamano er gatto. Macellaio, benzinaio, barista, sposato a 18 anni con Paola, malvista dalla madre perché burina, due figli in rapida successione, Ferrero diventa factotum a Cinecittà. Ottiene piccole parti: “Mi chiesero se volevo fare un film su Pasolini. Dissi di sì. Uno mi toccò il culo. Gli detti una capocciata. Lui a terra gridava: ‘Sei una vipera!’. Ma fu Monica Vitti a chiamarmi Viperetta. Aveva ragione: so ’na vipera”. Svelto come un gatto e velenoso come un serpente, impara e fa carriera: aiuto regista, direttore di produzione, organizzatore generale, produttore esecutivo.
La svolta arriva col secondo matrimonio: impalma Laura Sini, erede di un impero di caseifici nel Lazio. Soldi veri, grazie ai quali si fa produttore indipendente, tra alti e bassi. Scatta una serie di funamboliche scorribande finanziarie. Dice che il suo motto è “compra, vendi, guadagna e pentiti”, ma più pentiti sono alcuni che l’hanno incrociato. A febbraio 2009 Ferrero entra nella compagnia aerea Livingston. Ne esce un anno e 8 mesi dopo, con un buco di 40 milioni e 500 dipendenti a casa. Per questa vicenda ad aprile 2017 patteggia un anno e 10 mesi per bancarotta: “Me so’ spaccato cuore e culo e c’ho pure rimesso la faccia”. Il 15 dicembre 2009 rileva per 59,5 milioni dalla liquidazione del gruppo Cecchi Gori la gestione del cinema Adriano e di altre dieci sale romane. Il 12 giugno 2014, sebbene sia romanista sfegatato, compra la Sampdoria per una somma ignota. Per cedergli la squadra di Serie A la famiglia Garrone deve però anticipare 107 milioni a copertura debiti e perdite. Er Viperetta diviene un habitué del calcio in tv, tra sceneggiate e risse verbali. Finisce anche il secondo matrimonio: nel 2015 l’ex moglie lo denuncia per truffa e minacce, lui replica con un esposto per calunnia. Dalla nuova relazione con Manuela Ramunni ha due figli.
I problemi non mancano. A settembre 2015 la Procura di Roma gli sequestra per vertenze fiscali un appartamento di 13 vani ai Parioli, dove è costretto a demolire opere irregolari compresa una sauna. A luglio 2017 è indagato per appropriazione indebita, autoriciclaggio, fatture false: per i pm avrebbe sottratto 1,2 milioni alla Samp, dirottando sui conti di una sua società parte dei ricavi della vendita di un calciatore. Ma il 3 luglio 2020 viene prosciolto con formula piena insieme alla figlia Vanessa, al nipote Giorgio e ai manager Andrea Diamanti e Marco Valerio Guercini. Ieri, a 70 anni suonati, l’ultima disavventura. Pare di sentirlo, er Viperetta, mentre si ripete “a chi tocca nun se ’ngrugna”.

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Mario Ajello, il Messaggero
«I film in bobina, come si sa, in gergo si chiamano pizze. Quello che invece non si sa è che i film, almeno i miei, prima di essere prodotti sono caciotte. O mozzarelle, pecorini, caciocavalli». Questa non è una battuta del Viperetta, ma la realtà. Perché Ferrero ha fatto il produttore cinematografico grazie ai caseifici dell’ex moglie Laura. E con i quali, così ha sempre raccontato, «siamo i primi esportatori di caciotte negli Stati Uniti». Ma quando lo chiamano «caciottaro», il romanissimo e testaccino presidente della Sampdoria finge di offendersi. Al soprannome Er Viperetta dice di essersi abituato e quasi se lo coccola come un vezzeggiativo: «Io non faccio male a una mosca». Sostiene che il nomignolo sia un’affettuosità inventata da Monica Vitti, ma sono in pochi a credergli. «Le vipere uccidono, tu fai solo del bene e sei simpatico e pittorescoooo», gli dice sempre il suo amico Sylvester Stallone. Ferrero è proprietario del cinema Adriano di Roma e controlla 60 sale cinematografiche in Italia, per lo più acquistate a poco prezzo dal gruppo Cecchi Gori come del resto a poco prezzo meglio: a titolo gratuito, accollandosi i 15 milioni di debiti ha rilevato il club blucerchiato dai Garrone. «Vengo dal nulla e ho comprato la Sampdoria perché dopo di lei c’è il nulla», diceva di sé presentandosi l’imprenditore, che, sin da bambino, tifa per la Roma. Coltiva da sempre il sogno di comprarla (ma con quali soldi?) e al tempo della vecchia proprietà i suoi fan appesero striscioni in mezzo alle strade: «Pallotta vattene, Roma vuole Ferrero».
I SOPRANNOMI
Ora si ironizza nei bar, specie quelli intorno a Piazza Cavour dove lo conoscono tutti: «Er Viperetta è diventato Er Gabbietta». Ma in carcere, quella volta minorile, il discusso e vulcanico patron della Samp - figlio di un autista di bus e di una venditrice ambulante tra Piazza Vittorio e altri mercati - già andò da quattordicenne. E racconta così il fattaccio: «Mi piaceva solo il cinema e scappavo sempre dai libri per andare a Cinecittà. Non rubavo e non stupravo. È solo che stavo con la figlia di un vigile urbano ma il padre non voleva quella relazione perché era matto di mente. Mi ha fermato con il motorino, mi ha urlato contro, gli mollato uno schiaffo. E mi ha portato in galera». Adesso Er Viperetta ha 70 anni e suo curriculum vitae annovera tante pellicole anche impegnate (non solo Tinto Brass) come «Mery per sempre» e «Ragazzi fuori». Ma prima, sognava di fare il ballerino. «La domenica andavo a ballare il tip tap al Bar Veneto». Ma si manteneva facendo il «macellaretto, portava la carne nelle case. Avevo un amico con una bicicletta con il portapacchi e gliel’ho rubata». Da lì, racconta, la sua fortuna: «Una Fiat 1.100 comincia a suonarmi. Era l’aiuto regista di Blasetti che mi consigliava di andare al Palatino dove sceglievano delle comparse. Blasetti mi vede e mi fa: Sei capace di fischiare?. Dotto’ è il mestiere mio». Diventò una comparsa e da allora piano piano la scalata, fino a diventare ispettore di produzione con i maggiori registi italiani («Pure con Nanni Moretti ho lavorato, e con Fellini») e infine produttore. L’ex moglie lo ha denunciato per truffe e minacce, mentre adesso è legato a Manuela Ramunni. Ha quattro figli: Vanessa (anche lei arrestata), Michela, Emma e il piccolo Rocco. In passato ha tentato una spericolata avventura con la compagnia aerea Livingston, specializzata in charter nelle isole caraibiche, creando un buco da 20 milioni di euro e alcune disavventure giudiziarie, concluse patteggiando una pena di un anno e 10 mesi proprio per bancarotta fraudolenta. Altri guai sono arrivati nel 2016 quando è stato accusato di abusi edilizi nel suo attico ai Parioli, un immobile che peraltro era stato posto sotto sequestro per ragioni fiscali. Per lui una condanna a 4 mesi di reclusione. Più recenti le accuse inerenti il caso Obiang: oltre un milione ricavato dalla vendita del calciatore, nel 2015, sarebbe stato distratto da Er Viperetta in modo illecito per fini privati. Nel 2014, ha consigliato a Massimo Moratti di cacciare «quel filippino»: ovvero il presidente indonesiano dell’Inter Erick Thoir. «Io sono fatto così, so’ un regazzo de strada...», si vanta. Ma soprattutto è un personaggio da film e quello che gli si addice meglio in questa fase lo firmò Bernardo Bertolucci con lui in veste di direttore di produzione nel 1981: «La tragedia di un uomo ridicolo».