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 2021  dicembre 06 Lunedì calendario

Intervista doppia Tamberi & Barshim

Gimbo invidia a Barshim altezza e peso («Tu viaggi sopra l’asticella con dieci chili addosso meno di me!»), Mutaz ruberebbe a Tamberi la flessibilità («E l’amore che hai per la famiglia e per la vita»), se restano per più di una manciata di giorni senza sentirsi scatta il whatsapp promemoria («Hey man, ti ricordi cosa abbiamo combinato quest’estate a Tokyo...?»), non importa chi lo manda a chi perché è chiaro che questi due tipi speciali in collegamento su Zoom via World Athletics la mattina dopo aver vinto l’Inspiration Award della Federatletica mondiale – il marchigiano Gianmarco Tamberi, 29 anni, e il qatariota Mutaz Essa Barshim, 30 – sono gemelli diversi separati alla nascita.
La loro è la storia dell’anno. Un oro olimpico nei Giochi postdatati dalla pandemia inseguito fino a quota 2,37 metri sul livello del mare (del Giappone), tutti salti riusciti al primo tentativo e poi tre errori ciascuno, a 2,39 (primato personale e italiano di Gimbo; nel 2014 Mutaz si era spinto fino a 2,43, a 2 centimetri dal record del mondo di Javier Sotomayor), il giudice di gara che si avvicina ai duellanti allo stremo delle forze e chiede: «Volete continuare a saltare o vi dividete l’oro?». L’hanno condiviso, entrando per mano nell’attico con vista sull’Olimpo e saldando per sempre un’amicizia. «Ci siamo conosciuti nel 2010, al Mondiale junior di Moncton, in Canada» ricorda Barshim. «Che tu hai vinto a mani basse, mentre io nemmeno mi sono qualificato per la finale» precisa Tamberi, che finisce le frasi dell’amico. «Entro nella hall dell’albergo e mi salta addosso questo ragazzino italiano – prosegue Mutaz —. Ciao, sono Tamberi, mi dice abbracciandomi. Ho pensato fosse pazzo ma mi è stato simpatico da subito». Il seme del rapporto è gettato, non resta che osservarlo fiorire tra meeting di atletica, Mondiali indoor e all’aperto, il giunco di Doha è un talento assoluto, l’unico considerato in grado di ritoccare un primato mondiale vecchio 28 anni, la mezza barba di Gimbo arriva al pubblico prima del suo genio in pedana, il primo oro azzurro (Mondiale indoor di Portland) è datato 2016, a quel punto Barshim ha già conquistato l’Asia più volte e il mondo a Sopot 2014. «Lui è migliore di me per stile, costanza, altezze siderali raggiunte – ammette Tamberi —, è sempre stato un modello da seguire: tra le motivazioni che mi hanno spinto ad andare avanti c’è sempre stato il desiderio di raggiungere il suo livello. C’è rispetto reciproco dal primo giorno, l’amicizia è cresciuta strada facendo, l’infortunio ci ha uniti ancora di più».
Premiati dalla Iaaf
Al galà di Montecarlo hanno ricevuto dal presidente Coe l’Inspiration Award
Gimbo si lesiona il legamento della caviglia sinistra, quella di stacco, il 15 luglio 2016 a Montecarlo, tre settimane prima dei Giochi di Rio che sognava di sbranare, invece guarda da spettatore non pagante con il gesso al piede. Mutaz lo imita il 2 luglio 2018 in Ungheria, nel terzo tentativo a 2,46. Icaro bruciato due volte dal sole. «Come atleti dobbiamo essere egoisti – dice Barshim – ma quando torni a saltare così dopo un grave infortunio non puoi impedirti di provare un’ammirazione totale per l’avversario. Se prima eravamo simili, dopo l’operazione siamo diventati uguali. E adesso siamo qui, insieme, entrambi parte dell’eredità olimpica». «Nei giorni cupi del gesso ci siamo sostenuti, confidati – conferma Tamberi —, abbiamo pianto uno sulla spalla dell’altro. Anche un grande della ginnastica italiana, Juri Chechi, è tornato a gareggiare dopo un grave infortunio, ma la sintonia con Mutaz è stata totale: stessa disciplina, stessa caviglia, stesso recupero difficoltoso. Tu a chi ti sei ispirato?». «A Tiger Woods – risponde il qatariota —, sopravvissuto alle disavventure personali e all’operazione alla schiena. Anche Cassius Clay è un mito per me. Forse è arrivato il momento di fare un documentario su di noi, che ne dici?».
Prima del documentario è arrivato il premio nel galà di fine anno di World Athletics, perché nessuna cartolina partita dallo stadio olimpico di Tokyo verso il mondo è luminosa come quella firmata a quattro mani Tamberi-Barshim. «Dal primo agosto non ci siamo più lasciati – confida Gimbo —, ci sentiamo ancora più legati: è come se tra noi corresse un filo invisibile. Io a Ancona, lui a Doha, non importa. Mutaz è il mio fratello di sangue. Non escludo che l’anno prossimo ci si possa allenare insieme, io non ho segreti per lui: conosciamo punti di forza e debolezze reciproche. Naturalmente l’ho invitato al mio matrimonio, nel 2022. Io ero stato al suo con Alexandra a Lund, in Svezia, dove ha la sua base europea, prima che nascesse il piccolo Josef». E cosa gli avevi regalato, Gimbo? «Oddio, non mi ricordo, dovrei chiedere a Chiara, la mia ragazza, avevamo scelto dalla lista nozze, mi pare...». «Non ricordo neanche io – ride Barshim —, ma so per certo che è una cosa che usiamo tutti i giorni».Come se le similitudini fin qui non bastassero, Mutaz è cresciuto nel mito del padre Essa Mohamed di origine sudanese, prima atleta e poi coach in un piccolo club di Doha, ha abbracciato il salto in alto a 15 anni, quand’era un’anima lunga e sotto il dishdasha bianco (l’abito tradizionale) coltivava grandi sogni. Anche nel caso di Gimbo a tracciare la strada è stato il padre saltatore Marco, due volte primatista italiano e finalista ai Giochi di Mosca ‘80, la carriera stroncata da un incidente stradale e le aspettative di trionfo sublimate attraverso l’allenamento del figlio, che sembrava nato per giocare a basket («L’idolo è Tracy McGrady, con i Rockets capace di segnare 13 punti negli ultimi 35” della partita contro gli Spurs, realizzando una delle migliori performance nella storia dell’Nba: chiunque altro, al suo posto, non ci avrebbe nemmeno tentato») e invece è diventato un dio pagano dello sport.
A Tokyo Tamberi è stato il capitano dell’atletica italiana, una squadra meritevole di cinque ori, seconda nel medagliere soltanto agli Stati Uniti («Surreale ma se tanti ragazzini dopo l’estate hanno chiesto di essere portati al campo significa che l’esempio serve»). Barshim come al solito è stato l’uomo-squadra del Qatar, abituato a fare tutto da solo. «Abbiamo entrambi vissuto un viaggio complicato verso Tokyo – ricorda Gimbo —, a Montecarlo, subito prima dei Giochi, ho fatto la gara peggiore della stagione (2,20 m), ero distrutto, ho pianto tutta la notte, in quel momento credo che nessuno pensasse che avevo mezza chance di conquistare l’oro olimpico. Nemmeno io. Il giorno dopo mi sono alzato dal letto e mi sono detto: se c’è una sola opportunità, la coglierò. Non potevo mollare, lo dovevo a me stesso». Da lì in poi Gimbo ha cominciato a condividere tutto sui social, alti e bassi, gioia e lacrime, ricavandone in cambio la dote d’amore che si è portato in valigia in Giappone, fino all’appuntamento con il destino e con l’amico Barshim. «Tra tutti i rivali, oltre a Mutaz, forse avrei spartito la medaglia solo con Brandon Stark, l’australiano che si è allenato per lunghi periodi con me ad Ancona». «Io con nessuno» è la risposta definitiva di Barshim.
«Ci somigliamo – chiosa Gimbo —. Due esseri umani con l’etica piazzata al primo posto tra i valori, il concetto di amicizia più importante del risultato». Se non fosse così sarebbero andati avanti a saltare, uno avrebbe battuto l’altro sgualcendo la poesia, l’oro di Tokyo non sarebbe stato a due piazze e questa storia così clamorosamente bella.