Corriere della Sera, 6 dicembre 2021
Cosa c’è da sapere su Michel Houellebecq
PARIGI A poco più di un mese dall’uscita dell’ottavo romanzo che tornerà ad affrontare il tema centrale della sua opera – l’amore —, lo scorso 2 dicembre Michel Houellebecq è entrato in punta di piedi nell’anfiteatro Richelieu della Sorbona, onorato di prestarsi al seminario Le livre ou la vie e di lasciarsi interrogare dall’accademica Agathe Novak-Lechevalier, esperta dell’Ottocento e dell’autore delle Particelle elementari, al quale nel 2018 ha dedicato il bellissimo Houellebecq, l’art de la consolation (Stock).
Un incontro di oltre un’ora e mezza davanti a una platea di studenti e meno giovani ammiratori, durante il quale lo scrittore più celebre di Francia ha ripercorso i 30 anni di carriera esibendo una camicia di flanella gialla e marrone che ricordava in effetti i Nirvana e il 1991 degli esordi, ma indossando anche i più recenti panni di scrittore rockstar, che osserva il suo enorme successo, pronto a scherzarci su.
Houellebecq è lo scrittore amato in tutto il mondo e anche, ormai, un personaggio pubblico, apparso nel suo romanzo La carta e il territorio del 2010, poi in qualche film in cui recita sé stesso, fino al più recente album di Asterix con il nome di Terrincognitus. Houellebecq stimola l’immaginario, fa notare Novak-Lechevalier, e lui risponde «sono come Marilyn Monroe», provocando risate. Ma aggiunge: «È vero, ormai faccio parte del mondo dei personaggi pubblici. È capitato anche allo stilista Karl Lagerfeld, non so peraltro quanto fosse contento, quanto la sua figura pubblica fosse aderente a quella privata. Ma sono diventato una specie di un punto di riferimento dell’immaginario di un’epoca, è così», è la constatazione di Houellebecq, né compiaciuto né falso modesto.
Il 2 dicembre è anche il giorno in cui Napoleone si fece imperatore ponendosi da solo la corona in testa nella cattedrale di Notre-Dame, sottolinea la studiosa del Diciannovesimo secolo, e Houellebecq spiazza subito il pubblico.
In questi mesi, nel bicentenario della morte di Bonaparte, la Francia si è divisa tra chi sosteneva la necessità di celebrare Napoleone e chi invece denunciava le sue colpe. Napoleone è diventato il simbolo di una grandeur francese da rivendicare e difendere, contro la cosiddetta lagna pacifista del politicamente corretto e della cancel culture. Houellebecq in passato ha speso parole positive verso Trump o lo stesso Eric Zemmour, che idolatra Bonaparte. Invece il giudizio contro Napoleone è feroce: «Lo detesto, ha sempre fatto una distinzione fondamentale tra sé stesso e gli altri esseri umani. Per raggiungere i suoi fini non ha esitato a usare centinaia di migliaia di uomini come carne da cannone nelle guerre che hanno devastato l’Europa. Napoleone è probabilmente il peggiore personaggio della storia universale». Simpatia, in compenso, per Napoleone III, meno cupo rappresentante dell’epoca del vaudeville e di Offenbach, quando i francesi sapevano divertirsi «ma sono molto cambiati, da allora».
Poi alla Sorbona comincia la rievocazione degli inizi, quando l’agronomo Houellebecq si dedica alla letteratura con il saggio Rester vivant, la raccolta di poesie La ricerca della felicità (Bompiani) e il celebre testo sullo scrittore americano H. P. Lovecraft (1890-1937) Contro il mondo, contro la vita.
«Lovecraft era importante nella cultura rock, sebbene totalmente ignorato dalla critica letteraria. Me ne sono occupato anche per parlare alla mia generazione, era un po’ come parlare dei Deep Purple. Da cui l’interesse degli “Inrockuptibles”», la rivista che pubblicò i primi articoli di Houellebecq.
La prima intervista, ricorda con gusto lo scrittore, fu a «Dragon Magazine», una specie di fanzine sui giochi di ruolo, molto influenzata dall’universo di Lovecraft. Niente più interviste, ora, «perché sono afflitto dall’esprit de l’escalier», felice espressione francese che indica quella tendenza a farsi venire in mente le risposte a tono quando si è sulle scale, usciti di casa, e ormai è troppo tardi. Ma da Lovecraft al prossimo romanzo, che sarà pubblicato in contemporanea in Francia da Flammarion e in Italia dalla Nave di Teseo il prossimo 7 gennaio e del quale questa sera non si parla, Houellebecq non ha più smesso di scrivere.
Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore? «Sono gli altri che fanno di te uno scrittore. L’atto fondamentale, dopo avere scritto qualcosa, è farlo leggere a qualcun altro. La differenza decisiva è tra zero lettori e uno, molto più grande di quella che esiste tra un lettore e un milione».
È interessante poi scoprire come e quando scrive, Houellebecq. La mattina, appena sveglio, «quando la differenza tra il sonno e la veglia non è ancora così marcata. Scrivo al computer, ovunque mi trovi. Il luogo non è poi così importante perché comunque sono dentro al mondo del romanzo». I suoi libri seguono una grande struttura che comprende tutto, come in Honoré de Balzac molto amato da Houellebecq? «Niente affatto, non c’è alcuna struttura nei miei romanzi, lascio che siano i personaggi a portare la storia dove vogliono».
Se negli ultimi anni si è diffusa un po’ la moda degli scrittori che evocano un lavoro poco affidato all’ispirazione ma semmai metodico e rutinario, dalle 9 alle 5, anche per scongiurare l’ansia della pagina bianca, Houellebecq rivendica invece una forma di attesa paziente aspettando lo scatto iniziale: «Bisogna restare in uno stato di contemplazione attenta del reale. Aspettare che il romanzo cominci da solo. È vero che può essere angosciante, la partenza può anche non arrivare mai. Ma ormai so che a un certo punto, quando è arrivato davvero il momento, mi metto a scrivere. Una situazione si impone, un personaggio e un luogo arrivano. Come “Venerdì sera sono andato a una festicciola a casa di un collega”», l’incipit del suo primo romanzo, Estensione del dominio della lotta. E quando smette di scrivere? «Il processo di correzione potrebbe durare all’infinito. Un romanzo è chiuso quando mi ha stufato. So che a qual punto se continuassi a intervenire potrei solo peggiorare le cose».
Sulla questione che dava il titolo al seminario, il libro o la vita, Houellebecq preferisce non scegliere. Comunque «un libro non cambia il mondo. Se va bene, i lettori sono felici di vedere il mondo descritto in un modo che sembra loro soddisfacente, ma non si fanno prendere dalla voglia di cambiarlo. Ecco perché alla fine i miei romanzi sono innocui, non sono il Manifesto del partito comunista. La letteratura non serve a cambiare il mondo, ma aiuta a non esserne dipendenti». I romanzi come atto di resistenza, anche alla connessione contemporanea. Houellebecq apre lo zaino e mostra l’unico oggetto che contiene, il romanzo L’os de Lebowski, di Vincent Maillard (edito quest’anno da Philippe Rey). «L’uomo non è fatto per essere connesso in permanenza a internet e agli altri suoi simili. Esiste un’incompatibilità tra “essere” e “essere connesso”. Bisogna essere in grado di staccarsi dal flusso continuo, e il libro lo permette. Chi non è capace di uscire dal flusso è un pericolo per l’umanità».
Infine, l’amore. «È il mio tema principale, perché si tratta dell’esistenza della specie e non di interessi individuali. Non ho mai rimpianto il fatto di dedicare tanta attenzione all’amore sessuale. L’umanità dipende dall’amore».