Corriere della Sera, 6 dicembre 2021
Nel commercio globale la Cina viola tutte le regole
Vent’anni fa, nel 2001, il Prodotto interno lordo della Cina era di 1.339 miliardi di dollari. Quello stesso anno, esattamente l’11 dicembre, il Paese fu ammesso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), ovvero nel sistema di scambi internazionali fondato su regole e con dazi vantaggiosi. Il risultato è che nel 2021 il Pil della Cina supererà il 15 mila miliardi di dollari. Quell’11 dicembre fu un punto di svolta: ha dato forma al Ventunesimo Secolo. E oggi è il problema che hanno di fronte le economie di mercato e le democrazie.
Le ragioni di una svolta
Il via libera fu dato dal Congresso americano: «Un passo storico – commentò l’allora presidente Bill Clinton – verso la continuazione della prosperità in America, la riforma in Cina e la pace nel mondo». Anche la Ue raggiunse un accordo con la Cina che ne apriva la strada all’Organizzazione. E così hanno fatto tutti i membri della Wto. L’idea era che portare l’allora quinta economia del pianeta nel sistema commerciale condiviso l’avrebbe aiutata a crescere di più, a riformarsi, correggere le sue pratiche anti-competitive e inevitabilmente spinta verso un’apertura politica.
I benefici per i consumatori
Dal punto di vista macroeconomico, l’ingresso cinese nella Wto ha facilitato un boom dei commerci e uno spostamento del centro dell’attività manifatturiera dall’area atlantica a quella del Pacifico. Un processo già in atto, ma con l’ammissione nell’Organizzazione degli scambi ha beneficiato di tariffe migliori per le sue esportazioni, di dazi minori al suo import, e l’impegno a rispettare una serie di regole. I benefici per il resto del mondo ci sono stati. Prima di tutto per i consumatori, che hanno visto arrivare nei propri mercati prodotti Made in China di ogni genere a basso prezzo. Le multinazionali hanno avuto l’opportunità di entrare nel più grande mercato del mondo: nell’elettronica, le aziende americane e giapponesi; nel settore auto, le americane, le tedesche, le nipponiche, le coreane; nella moda e nel lusso, il Made in Italy, ma anche i francesi e gli americani; i produttori di semiconduttori e di tecnologia avanzata. La Cina diventa strada facendo la «fabbrica del mondo» e un mercato in espansione senza precedenti.
Il reddito delle famiglie
Dal 2001, le esportazioni cinesi negli Usa sono passate da cento a 540 miliardi di dollari (2018), quelle verso l’Europa da 80 a 383 miliardi di euro nel 2020. Nel frattempo, nel Paese la povertà assoluta è stata eradicata: se nel 1990 il 67% della popolazione viveva con 1,90 dollari al giorno, oggi siamo a meno dell’1%. Dal 2001, il reddito delle famiglie urbane è aumentato del 431% (più del 60% della popolazione è urbanizzata), e il Pil procapite passato dai mille dollari l’anno ai 10.000.
Usa e Ue: persi milioni di posti
Gli effetti sull’occupazione provocati dell’arrivo della Cina nell’economia globale sono stati pesanti, ma il dibattito è aperto. Lo studio condotto dall’Economic Policy Institute, ha stimato che da quando Pechino è entrata nella Wto al 2017 gli americani hanno perso 3,4 milioni di posti di lavoro. Il 74% dei quali nel settore manifatturiero. In sostanza, molto di quello che prima si produceva negli Stati Uniti è emigrato nelle fabbriche cinesi, a costi inferiori anche calcolando la logistica. Lo stesso è stato vero per l’Europa. Secondo i ricercatori dell’università di Stanford, però, nelle zone a prevalenza di lavoro qualificato ci sono stati guadagni di occupazione. Una riallocazione, insomma: le multinazionali hanno trasferito posti di lavoro in Cina ma hanno creato lavori di alta qualità in casa nei servizi. Invece in Italia, patria delle piccole e medie imprese, la perdita di posti è stata maggiore.
Le norme mai rispettate
Quando la Cina entrò nella Wto, si impegnò ad adeguare la propria economia alle regole e alle pratiche commerciali dei Paesi a libero mercato. La Information Technology and Innovation Foundation – un think tank non profit americano – ha stilato quest’anno l’elenco degli impegni presi allora e non rispettati. Eccoli: la Cina non tratta le imprese estere come quelle domestiche; le imprese di Stato non hanno ridotto il loro peso nell’economia, soprattutto nel settore tecnologico; le stesse imprese di Stato non fanno acquisizioni fondate su logiche commerciali ma spesso politiche; gli aiuti di Stato alle industrie non sono stati ridotti e le informazioni non vengono date tempestivamente; le imprese che aprono in Cina devono cedere la loro tecnologia estera a partner cinesi; le violazioni e il furto di proprietà intellettuale non sono diminuite significativamente; gli standard tecnologici continuano a non essere trasparenti; le politiche sulla concorrenza sono sempre condotte in modo discriminatorio; nessuna azienda straniera ha mai vinto un appalto pubblico; il mercato dell’information technology non è stato aperto agli stranieri; la distribuzione di audiovisivi non è stata liberalizzata; le banche straniere non hanno pari trattamento di quelle domestiche.
Il bilancio dopo 20 anni
Quest’anno la Ue ha stigmatizzato il fatto che Pechino non abbia, a differenza di quanto promesso, aperto i mercati del digitale e dell’agricoltura, abbia continuato a produrre un eccesso di acciaio, sovvenzionato dallo Stato, mettendo fuori mercato i concorrenti esteri. Nonostante l’accordo firmato a fine 2020, sugli investimenti con la Cina, molto voluto da Angela Merkel, (poi finito nella sabbia), oggi la Ue è sempre più consapevole delle scorrettezze di Pechino e di quanto siano pericolose per gli scambi e per la politica internazionali. Lo scorso ottobre, i rappresentanti dei 164 Paesi presso la Wto hanno tenuto una riunione di valutazione a vent’anni dall’ingresso della Cina nella Wto. La maggioranza degli interventi ha criticato Pechino. Il rappresentante americano David Bisbee ha detto che le aspettative «non sono state realizzate, e non possiamo nemmeno ignorare i rapporti dell’uso di lavoro forzato in numerosi settori».
Niente economia di mercato
Quando entrò nella Wto, l’accordo era che la Cina, dopo 15 anni, sarebbe stata dichiarata formalmente una “economia di mercato”. Importante, perché contro un Paese che non è un market economy possono essere prese automaticamente misure di contrasto alla vendita sottocosto di prodotti. Ma nel 2015 Stati Uniti e Ue si rifiutarono di considerarla tale, dati i suoi pesanti aiuti di Stato alle imprese. Nel giugno 2019 Pechino stessa ha rinunciato a ottenere lo status prima che una decisione fosse presa formalmente da un panel della Wto. Detto diversamente: i cinesi sanno di non essere un’economia di mercato. Nel 2000, tra le 500 imprese globali elencate da Forbes, 27 erano cinesi; oggi sono 124, di cui 91 finanziate dal governo e dirette dal partito. È stata accusata dal tribunale 44 volte: sui limiti alle esportazioni di Terre Rare, sui trasferimenti di tecnologia, sulla violazione della Proprietà Intellettuale, sui sussidi ai produttori di alluminio. Però oggi il tribunale è congelato: Trump ha bloccato la nomina di giudici scaduti, e Biden non sembra avere intenzione di nominarli.
L’Organizzazione congelata
Che la Cina sia oggi pienamente integrata nell’economia globale e nel sistema degli scambi è un fatto incontrovertibile. È altrettanto innegabile che con la salita al potere di Xi Jinping, nel 2012, sia diventato via via più chiaro che Pechino punta a un mondo dove è la Cina a dettare le regole commerciali, d’investimento e concorrenza. Di fatto, in questa situazione, la Wto è impotente, con la seconda economia del mondo che non ne segue le regole. Infatti Washington e in parte la Ue considerano l’Organizzazione, com’è oggi, non più autorevole e nemmeno utile.