La Stampa, 6 dicembre 2021
La casa di Donato Carrisi
Ci sono tanti posti che chiamo «casa». Non tutti hanno un tetto che protegge da lampi e grandine, non tutti hanno porte da aprire o da tenere sempre chiuse. Non tutti hanno finestre da cui osservare il cielo in tempesta.
C’è la casa che ha ascoltato le mie risate di bambino e c’è quella in cui oggi riecheggiano le risate dei miei, di bambini. C’è il set cinematografico in cui per diverse settimane abitano le mie storie, tra fondali costruiti con sapiente maestria artigiana – come da grande tradizione della cinematografia italiana, di cui spesso colpevolmente ci dimentichiamo – e personaggi fino a quel momento soltanto immaginati su carta e che lì diventano carne e sangue. Diventano, inevitabilmente, famiglia. Inevitabilmente, casa.
Se ci rifletto bene, mentre mi sposto da una «casa» all’altra con quell’effetto di spaesamento che a tratti può sembrare fatica ma che invece è vita, non c’è posto che io possa definire davvero «casa» a meno che non sia esso stesso una storia. Noi, tutti noi, abitiamo le storie. Le storie che siamo stati e che siamo, quelle che raccontiamo e ci raccontiamo.
Queste storie hanno tutte una «casa» primaria: la nostra mente. Ad arredarne gli ambienti sono i nostri ricordi.
Ricordo i giocattoli che avrebbero dovuto divertirmi e invece mi facevano paura.
Ricordo il profumo della penombra nel primo teatro che ho visitato. Ricordo di aver guardato con inspiegabile nostalgia quel palcoscenico, così distante e così vicino. Perché sì, si può provare nostalgia per le cose non ancora accadute.
Ricordo la libreria sull’orlo del mare, le pagine che odoravano di salsedine e quel libro che, ancora non lo sapevo, mi avrebbe cambiato per sempre la vita. Ricordo di esser stato ipnotizzato, una volta, ma lo ricordo soltanto perché me l’hanno detto dopo.
Ricordo di aver pensato, da sempre, di dovermi aggrappare ai ricordi con tutta la mia forza per non tradire mai me stesso.
Se il cibo è ciò che tiene in piedi il nostro corpo, insomma, i ricordi sono ciò che tiene unita la nostra mente. Sono i ricordi a impedirci di frantumarci in mille schegge senza senso.
Ma se non fosse così? Se, per qualche oscura e terribile ragione indipendente dalla nostra volontà, i nostri ricordi smettessero di appartenerci?
Se d’improvviso i nostri ricordi… mentissero?
Ricordo di essermi fatto proprio questa domanda immediatamente dopo aver scritto l’ultima parola della Casa delle voci. Quel giorno ero sul set de La ragazza nella nebbia per girare una scena che si svolgeva in un interno, una scenografia allestita in uno dei grandi spazi di Cinecittà. Avevo terminato in anticipo il pranzo, consumato davanti allo schermo del computer, e, quasi sovrappensiero e senza far caso all’orario, mi ero addentrato nella scena del set convinto di trovarvi qualcuno già al lavoro per predisporre la ripresa.
E invece ero da solo, in un silenzio spiazzante.
Ero circondato da pareti che apparivano in tutto e per tutto autentiche, ma che sapevo essere dei fondali. Eppure ogni dettaglio era curato: la lampada rossa poggiata su un tavolino di vetro e ottone, le fotografie incorniciate sulle pareti rivestite da una tappezzeria a disegni geometrici, perfetti e inquietanti allo stesso tempo, il divano in pelle non nuovo di negozio bensì consunto nei punti giusti, come se qualcuno per anni si fosse seduto al medesimo posto, ogni sera, con un libro in mano. E per un istante – vi ho già detto dello spaesamento, no? – ho creduto con assoluta convinzione di essere a casa mia. Nella mia mente, mi ero appena lasciato alle spalle una giornata intensa di lavoro e quell’ambiente così familiare era pronto ad ospitarmi con tepore rassicurante. Perciò, come in una suggestione post ipnotica, mi sono seduto su quel divano consunto nei punti giusti, lo schienale mi ha accolto in un confortevole abbraccio come se conoscesse da sempre l’impronta del mio corpo, e ho riletto il foglio su cui avevo stampato l’ultima pagina del romanzo appena concluso.
Lo spaesamento è durato un istante, mi sono subito rialzato, sorridendo dell’assurdità della situazione. Gli occhi piccoli e rossi delle macchine da presa mi guardavano, sbigottiti quanto me.
Ma per quell’istante, anche la mia mente ricordava di esser già stato seduto sul divano. La mia mente ricordava come assolutamente familiari i volti appesi alle pareti. Quella, insomma, era casa mia.
Cos’era accaduto? E soprattutto – domanda ancor più interessante benché inquietante – cosa sarebbe successo se non mi fossi mai risvegliato da quella specie di illusione?
Provate a immaginarlo, come ho fatto io quel giorno sul set.
Immaginate di trovarvi in una stanza, la vostra stanza preferita, con tutti gli oggetti che amate e che parlano di voi, della vostra vita, della vostra storia: quadri e fotografie, piccoli soprammobili, quaderni, regali ricevuti…
E adesso immaginatevi che qualcuno si introduca nel vostro rifugio. Immaginate che qualcuno di invisibile, ma reale, vi si avvicini e sussurri qualcosa al vostro orecchio.
Niente di tutto questo ti appartiene. Questa non è la tua storia. Questi non sono i tuoi ricordi.
Questa non è più casa tua.
Nel romanzo che avevo appena terminato di scrivere quel giorno sul set, La casa delle voci, c’è un personaggio, Pietro Gerber – l’ipnotista più famoso di Firenze, l’«addormentatore di bambini» – il cui lavoro è proprio quello di introdursi in casa d’altri, tramite l’ipnosi.
Gerber entra nel rifugio apparentemente più sicuro e protetto dalle invasioni, la nostra mente, e fa rintoccare i propri passi là dove le nostre memorie si annidano nell’ombra. Pietro Gerber è la sottile lama di luce che filtra da un’imposta non del tutto serrata e si spinge a illuminare l’angolo polveroso all’estremità del pavimento. È la carezza delicata che risveglia dal sonno agitato il bambino segreto. Pietro Gerber stana, dentro di noi, quei ricordi che d’improvviso iniziano a raccontare una storia che non ci appartiene davvero.
Perché c’è una verità che Pietro Gerber conosce benissimo e che noi, invece, abbiamo accuratamente nascosto a noi stessi. La verità è che le nostre paure di bambini non scompaiono con l’età. Non le abbiamo dimenticate, non le abbiamo superate. Loro sono sempre lì, e ci aspettano.
Il mio mestiere è raccontare storie, e tutto parte da una domanda.
E se la tua casa diventasse una casa senza ricordi?
Se pensate che sia un interrogativo inquietante, sono d’accordo.
Ma poiché il primo dovere di uno scrittore è inquietare se stesso, credetemi: la risposta che troverete nelle pagine del mio nuovo romanzo lo è ancora di più. —