La Stampa, 6 dicembre 2021
Gli abusi nello sport
Le accuse della tennista Peng Shuai non entreranno probabilmente mai in un tribunale e lo sport va in crisi perché non ha la forza di gestire un caso che non si può costruire, non si riesce a valutare, ma non deve per forza essere così. Se esistesse un’organizzazione anti abusi indipendente, le conseguenze delle accuse degli atleti non sarebbero più in mano a un singolo stato o a una specifica federazione e ci sono 172 pagine su cui costruire un’unità vittime speciali. Senza stare in un telefilm.
La Fifa ha commissionato uno studio approfondito e si propone di contribuire alla creazione di questa entità già nel 2022, con il proposito di non farne parte. La necessità di un organo nuovo nasce da una esperienza diretta.
Caso ragazze del calcio haitiano contro la federazione, le voci hanno iniziato a girare durante la pandemia e proprio come per Peng Shuai si è partiti da sfoghi social raccolti dai giornali. Con il Covid era impossibile mandare investigatori. I post sono spariti, le testimonianze hanno continuato a camminare e la Fifa da Zurigo ha organizzato un panel a distanza. Si sono appoggiati alle Nazioni Unite che avevano una agente in zona e a sua volta lei ha coinvolto una psicologa e un avvocato dell’Unicef. Insieme hanno costruito un dossier, passato poi nella mani di Mario Gallavotti, avvocato, uomo chiave nella presidenza Infantino, spesso accusato di avere troppo potere e promotore dell’unità anti abusi. «Ci siamo ritrovati davanti a un’arbitra che aveva rifiutato volgari avances ed era stata estromessa e da lei siamo arrivati a tante giovani molestate, erano braccate». Trentaquattro dichiarazioni firmate, 14 con la denuncia contro l’allora capo del pallone ad Haiti Yves Jean-Bart, un signore radiato a vita dal calcio che non ha mai dovuto rendere conto alla giustizia ordinaria e vive libero a Santo Domingo. Per lo meno lontano da cariche che gli danno l’occasione di devastare vite. Da un contesto tanto truce sono emersi alcuni punti chiave: serve una rete locale per raccogliere informazioni, è l’unico modo di aprire un canale legale alternativo in Paesi che non hanno alcuna intenzione di garantire processi equi. Quella rete deve essere autonoma e «se il calcio ricco e organizzato si è trovato in una giungla di problemi, figurarsi che succede con altre discipline».
Lo studio, commissionato a una società di Los Angeles specializzata in diritto sportivo, la Butler international, porta percentuali di vari sondaggi fatti in diverse nazioni, i dati non sono omologhi, toccano realtà differenti, ma danno l’idea che i casi conosciuti siano un nulla rispetto al sommerso. Il giro di pedofili scoperto in Argentina nel 2018, il 56 per cento delle donne tesserate per un qualsiasi sport in Turchia che dicono di aver subito violenza fisica o psicologica, i 3000 fascicoli aperti in situazioni dove a gestire l’attività sportiva era la chiesa cattolica. Non si omette nulla eppure resta difficile arrivare a statistiche che diano una reale foto e la sproporzione tra le denunce e i giudizi è avvilente. Per l’eclatante condanna contro l’ex medico della ginnastica Usa ci sono voluti quasi 30 anni e più di 500 adolescenti maltrattate. Nel 2019 la procura afghana ha aperto un provvedimento contro il capo della federcalcio e lo ha pure subito fatto cadere mentre la commissione etica della Fifa lo ha squalificato a vita. Altro caso passato da Gallavotti «e nemmeno io conosco i nomi delle ragazze, cinque di loro sono dovute scappare, prima del ritorno dei talebani, oggi sono in Svizzera. Possiamo garantire l’anonimato, possiamo forzare indagini che governi e istituzioni reticenti si rifiutano di affrontare, ma per farlo ovunque ci sia qualcuno tanto coraggiosa o coraggioso da farsi sentire serve un’unità che lavori come fa la Wada contro il doping. Più snella, meno costosa, ma altrettanto competente e sopra le parti».
Nel report si parla di «fondi agili», di filantropi, di raccolte annuali, di budget da stanziare a seconda delle necessità. Sembra tutto molto precario, ma le possibilità ci sono e la struttura ha bisogno di essere riconosciuta, certo, però non approvata da tutti: il suo lavoro diventerebbe legge con il sostegno di molti stati e delle federazioni più grosse, del Comitato olimpico che almeno si leverebbe l’imbarazzo vissuto in questi giorni davanti a Peng Shuai. La proposta ha già incassato l’appoggio del Consiglio Europeo, i trattati internazionali utili non sono da inventare, solo da assimilare. Nel report si parla di inchieste in posti dove regna l’omertà, ma nell’Occidente democratico è difficile persino sentire denunce e purtroppo non perché non ci sono violenze. Sapere che esiste un’unità con gli strumenti e le professionalità per trattare circostanze tanto infelici aiuterebbe. Da quelle percentuali, impossibili da maneggiare, non esce un quadro completo, ma il disagio è evidente, preme dietro un non detto che fa paura. —