Il Messaggero, 6 dicembre 2021
In Giappone le regine della notte sono disperate
Zetsubo Seikatsu, Vite disperate. Si chiama così la nuova rubrica che dal 29 novembre scorso appare sul Nikkan Gendai, uno dei due principali tabloid che si pubblicano in Giappone. L’altro è lo Yukan Fuji. Entrambi vendono circa un milione e mezzo di copie, ed entrambi affrontano tutti i temi della politica, cultura e società con un linguaggio crudo e a volte volgare, ma in genere, come dire, ci azzeccano. Nel senso che è proprio in questi due quotidiani che a volte appaiono, in anteprima, le vere notizie. O che se ne apprendono, e approfondiscono, i retroscena.
Ma parliamo della nuova rubrica, che sarà affidata, ha annunciato la direzione, a turno a famosi scrittori, intellettuali, artisti. La prima serie è stata affidata alla scrittrice e influencer Kaoru Natsume, che sceglie un argomento tanto delicato quanto drammatico. La situazione in cui sono costrette a vivere meglio sarebbe dire sopravvivere, oramai – le lavoratrici del cosiddetto mizu-shobai (letteralmente business dell’acqua, riferito al fatto che quando un cliente ordina da bere per la sua hostess, anziché vino, gin o cognac in realtà le arriva un innocuo bicchiere d’acqua colorata).
In altre, più crude parole, il business dell’intrattenimento notturno, che in Giappone, ed in particolare a Tokyo e nelle altre grandi città, ha mille declinazioni, più o meno legali, più o meno fantasiose: dai locali sadomaso, ai kosuplay (dove i clienti possono vestirsi, o chiedere alla hostess di farlo, da cartoni o supereroi), dai chikan densha (piccoli locali disegnati a forma di vagoni della metropolitana, dove è possibile palpare, ma nulla di più, le presunte passeggere) alla prostituzione vera e propria. Che in Giappone teoricamente è illegale ma che è ampiamente diffusa e tollerata. E che ha i suoi quartieri specializzati, da secoli, si potrebbe dire, senza alcuna soluzione di continuità (se non nel tipo di servizi e nei prezzi): Yoshiwara a Tokyo, e Tobita, tanto per nominare i due più famosi.
Un business che prima della pandemia era tra i più fiorenti e frizzanti ma che negli ultimi anni è letteralmente crollato: meno 70%. «Passi per i gestori, che campano anche d’altro, e per la clientela scrive giustamente Kaoru Natsume, con linguaggio desisamente colorito francamente me ne infischio del fatto che i maschietti faranno fatica a perseguire le loro perversioni qui il problema, drammatico, è delle donne che hanno perso il lavoro, che sono centinaia di migliaia e che non hanno diritto ad alcun ristoro, dato che si tratta di lavoro nero e spesso illegale». E racconta di una tale Yumi, immaginiamo nome di fantasia.
Yumi aveva perché nel frattempo è morta (di Covid, assieme ai suoi genitori, abbandonati in casa perché in Giappone, all’epoca, gli ospedali si rifiutavano di ricoverare pazienti con sintomi lievi) 23 anni. Spirito ribelle, in perenne contrasto con la famiglia (padre impiegato pubblico, madre casalinga) aveva cominciato da giovanissima a giocare con il sesso e le sue varie declinazioni. A 16 anni, mentre frequentava la scuola superiore, era entrata nel giro del cosiddetto papa-katsu, un sistema molto diffuso di prostituzione soft: utilizzando alcune app uomini anziani si mettono in contatto con le ragazzine (minorenni) per passare un po’ di tempo con loro, quasi sempre senza sviluppi. Si esce assieme, si prende un caffè, si fa shopping, si fa una passeggiata nel parco. Le ragazzine tornano a casa con prodotti firmati e molti soldi, i vecchietti sono felici perché hanno passato un po’ di tempo in compagnia.
Ma poi Yumi va oltre, ed entra nel mondo della vera e propria prostituzione. Prima però trova lavoro, ben remunerato (circa 1000 euro a notte, più eventuali mance) in un locale S&M (sado maso). Trova anche un compagno, un giovane parrucchiere, che non sa nulla della sua vita notturna. Vanno a vivere assieme, lei a lui racconta che lavora come barista in un locale notturno. Ci sta. Le coppie giapponesi non parlano molto tra di loro, spesso è una convivenza di..convenienza. Tutto sembra procedere a meraviglia, tant’è che Yumi e il suo ragazzo progettano, appena messi da parte ancora un po’ di soldi, di aprire un loro locale.
Poi però arriva la pandemia. La proprietaria del locale S&M licenzia in trinco Yumi, offrendole come liquidazione 50 mila yen, meno di 400 euro. Lei ne guadagnava mille al giorno, come minimo. Yumi prova a reagire, scende all’ultimo girone dell’inferno delle notti giapponesi e trova lavoro in un vero e proprio bordello, quello che i giapponesi, con il loro amore per gli eufemismi, chiamano soapland.
Ma dura poco: i clienti non sembrano apprezzarla, il gestore del locale le riduce la paga e il suo ragazzo, per caso, scopre la sua nuova attività. Disperata (di cui al titolo della rubrica) torna a casa dei suoi, che non vedeva da anni. Li trova chiusi in casa, ammalati di Covid, di fatto abbandonati a loro stessi. Decide di restare, di occuparsi di loro. Ma si ammala anche lei. E uno dopo l’altro, muoiono tutti. Chissà cosa ci riserva, la prossima puntata.