Tuttolibri, 4 dicembre 2021
I fratelli Strugackij
Se iniziare a leggere (o a tradurre) un libro equivale sempre a precipitare in una realtà parallela, talvolta può anche capitare che il carattere «alieno» di un determinato mondo di carta generi in noi un curioso effetto di riconoscimento. L’Isola abitata ha inizio col protagonista Maksim che apre con cautela l’oblò della sua navicella per osservare il cielo dell’ignoto pianeta su cui ha appena fatto naufragio. Di lì a breve della sua astronave non resterà traccia – un’inopinata esplosione la polverizzerà, privando così l’eroe (un «giovane comunista del XXII secolo») dell’immediata possibilità di far ritorno sulla Terra. Non diversa appare la situazione del traduttore che si accinga a lavorare sui romanzi di Arkadij e Boris Strugackij: il nuovo universo verbale che lo circonda esige infatti un notevole sforzo di immaginazione per essere prima visualizzato e poi reso in un’altra lingua. Sulle orme del protagonista, chi traduce dovrà dunque uscire dal suo involucro lessicale «terrestre», senza tuttavia dimenticare la specificità del contesto in cui i due autori di fantascienza si trovavano a operare – vale a dire l’Urss degli anni Sessanta-Settanta.
Come gli altri testi dei fratelli Strugackij già pubblicati da Carbonio (La chiocciola sul pendio e La città condannata, entrambi tradotti da Daniela Liberti), anche L’isola abitata appare basato su una serrata alternanza tra straniamento e immedesimazione. Da una parte i due autori tratteggiano uno sfondo che, per la sua desolata bizzarria, ricorda già la «zona» di Picnic sul bordo della strada, cui nel 1979 si ispirerà Andrej Tarkovskij per il suo film Stalker. Foreste contaminate, tralicci irradianti, vetuste macchine da guerra che sparano indiscriminatamente a tutto ciò che si muove, tribù di «mutanti» che recano evidenti sui loro corpi le tracce di un’involuzione genetica provocata da una non meglio precisata guerra – ecco le caratteristiche più eclatanti dell’universo distopico con cui Maksim si trova improvvisamente a confronto. Una realtà resa ancora più spiazzante dall’utilizzo di una congrua quantità di neologismi inseriti ex abrupto nella narrazione, quasi il lettore (e il traduttore) sapessero perfettamente di cosa si sta parlando. «Tallotto» (in luogo del russo takhorg, riferito a un ipotetico animale commestibile diffuso sulla Terra del XXII secolo), oppure «massaracchio» (per rendere massaraksh, l’imprecazione più ricorrente sull’Isola) sono dunque miei tentativi squisitamente soggettivi di riprodurre per via fonetico-semantica le invenzioni linguistiche dei due autori.
Se quindi gli Strugackij sembrano stimolare una tendenza all’arbitrio che, di regola, chi traduce è tenuto a metter da parte, i loro romanzi richiedono nondimeno la capacità di cogliere quelle allusioni più o meno velate alla situazione politico-sociale dell’epoca che, qua e là, sbucano fuori dalla trama puramente finzionale – e ovviamente di restituirle con le parole «giuste». Il lettore si renderà presto conto come, a dispetto della sua natura aliena, L’isola Abitata assomigli per certi versi in maniera impressionante all’Unione Sovietica. Il genere fantascientifico viene utilizzato dagli autori come una sorta di doppio fondo per contrabbandare osservazioni vagamente sovversive che solo chi sa leggere tra le righe sarà in grado di afferrare. Così, i «degenerati» che sull’Isola si sono dati alla clandestinità per lottare contro la dittatura dei Padri Ignoti vengono chiamati, guarda caso, «dissidenti» e tacciati di «schizofrenia», proprio come gli oppositori del regime sovietico alla fine degli anni Sessanta.
Nulla di sorprendente, d’altronde, visto che L’isola abitata, scritto nel 1968, «l’anno della Cecoslovacchia», è il libro con cui Arkadij e Boris (nati rispettivamente a Batumi nel 1925 e a Leningrado nel 1933) si congedano dalla narrazione fantascientifica di stampo utopista per inoltrarsi nei territori impregiudicati nella distopia. Lo dimostra l’insistito dialogo a distanza con Robinson Crusoe, evidente fin dal primo capitolo. Se l’eroe di Defoe era destinato a trascorrere ben dodici anni nel più completo isolamento prima di rinvenire sulla spiaggia un’orma umana, Maksim ci metterà soltanto poche pagine per capire, grazie all’impronta di un piede a sei dita visibile sulla sabbia, che la sua isola non è affatto deserta. Al contempo, sarà proprio lui a impersonare agli occhi dei suoi abitanti la parte del «buon selvaggio» che lo scrittore londinese aveva assegnato a Venerdì. Figlio di quella società socialista vagheggiata dai pensatori utopici dei secoli XVIII e XIX (sub specie di Unione Sovietica del futuro), il protagonista è assolutamente estraneo alla logica di violenza, coercizione e indottrinamento ideologico che domina invece quel pianeta teoricamente immaginario, ma in realtà ispirato all’Urss del XX secolo, su cui è approdato per caso. L’isola abitata è il romanzo della sua (de)formazione politica – da giovane comunista interstellare ad aspirante poliziotto di uno stato totalitario, da fiancheggiatore di un manipolo di terroristi idealisti a condannato ai lavori forzati, per ritrovarsi infine semplice terrestre – forse il miglior viatico per una nuova fuga post-sovietica nell’utopia?
Come tutti i romanzi degli Strugackij anche L’isola abitata è stato composto a quattro mani. A turno, un fratello stava sdraiato sul sofà e dettava all’altro, che trascriveva seduto alla macchina per scrivere. Se vogliamo prestar credito a un’intervista concessa nel 1983 a Dino Bernardini per L’Unità, a battere sui tasti era quasi sempre Arkadij, «perché Boris è pigro, distratto e sciatto nello scrivere». Da qui la peculiare cadenza parlata dei loro libri, punteggiata da infinite digressioni, incisi e ripetizioni, per riprendere il filo. E da qui la necessità per il traduttore di sdoppiarsi, di essere un po’ Boris sognante sul divano, e un po’ Arkadij iper-attento, alla scrivania. Per tentare di restituire il senso di una delle collaborazioni creative più visionarie del Novecento. —