Tuttolibri, 4 dicembre 2021
Uno scritto di Georges Simenon sui tahitiani
Pioveva a dirotto. Quattordici giorni dopo aver lasciato Panama, a bordo della nave mercantile mista che va da Marsiglia all’Oceania, avevamo intravisto, a pelo d’acqua, delle ombre indistinte che erano, a quanto pareva, palme da cocco.
«L’atollo di Fakarava» ci annunciarono. Uno dei più grandi, uno dei più belli, quello dove peraltro vive la più graziosa maestra indigena...
Ma andammo oltre. Ci dirigevamo a tutta velocità verso la capitale di quell’impero oceanico, vale a dire verso Tahiti.
Per togliermi il pensiero, lasciatemi fare un po’ di geografia. Quelli che in linguaggio politico vengono definiti Insediamenti francesi in Oceania sono in realtà un insieme sparso di isole suddivise in cinque arcipelaghi: le Mar- che si, che sono rocciose; le Tuamotu, che sono degli atolli piatti; le Gambier; le Isole Australi e infine le Isole della Società o arcipelago di Tahiti.
Tahiti è la capitale di questo impero che conta, sparsi in alcune centinaia di isole, circa trentaseimila abitanti.
Ma per fare il giro di queste isole, anche solo limitandosi alle principali, ci vuole un mese in battello a vapore e sei mesi in goletta.
* * *
Pioveva a dirotto, dicevo. Avevamo scorto, passando, un atollo delle Tuamotu, e per due giorni avevamo navigato tra altre isole senza nemmeno vederle, tanto sono lontane le une dalle altre.
Alla fine ci trovammo di fronte a una roccia alta duemila metri, ai piedi della quale non sembrava esserci terra, e ci venne annunciato:
«È Tahiti!».
Un pilota ci venne a prendere, dopo averci lasciato a bagnomaria tre ore buone al largo in mezzo alle onde. Fece passare la nostra nave tra due scogliere, e in fondo alla laguna ci fece accostare a un molo uguale a qualsiasi altro molo, con palafitte, capannoni, lamiera ondulata, camion, macchine e persone ad aspettarci. Nel grigiore si distinguevano i campanili rossi di due chiese e qualche tetto immerso nella vegetazione.
Quanto alle famose tahitiane, erano là, vestite con abiti di tela, azzurri, bianchi, verdi o rosa, tutte armate di un ombrellino. Solo una donna era nuda sotto un pareo, ma era una bionda, e quando salì a bordo scoprii che era una turista americana venuta a prendere il marito. (…) L’albergo, formato da bungalow separati, era anglosassone, tenuto da un americano cresciuto in Germania, e i camerieri erano cinesi che parlavano solo la loro lingua e l’inglese.
Pioveva a catinelle. Eravamo fradici, e bisognava sguazzare fino alle ginocchia nelle pozze d’acqua per andare dal bungalow alla sala da pranzo. Qui mi aspettavano degli inviti, per i club della zona: il circolo Bougainville, il Loti, il Colonial ecc.
«Qual è il migliore?» chiesi al direttore.
«Dipende».
«Da cosa?».
«Lei è a favore di Manier o contro Manier?».
Cambio il nome di proposito, ma non cambio nient’altro.
«Chi è Manier?».
«È il nostro Stavisky! È riuscito a provocare un crac finanziario di dodici milioni in un anno, una somma pari al budget dell’intera colonia. È in carcere da otto giorni...».
«E devo per forza prendere posizione?».
«È indispensabile! Il Loti è a favore; il Bougainville è attendista e il Colonial contro... Resta lo Yacht-Club, che sembra neutrale, ma che...».
E intanto continuava a piovere! Vedevo solo delle palme da cocco tristi come uccelli spennacchiati. I cinesi, vestiti di bianco, apparecchiavano i tavoli in un salone nel più puro stile Montparnasse, con quadri in vendita su tutte le pareti e fotografie autografate di personaggi celebri.
«Ma gli indigeni?» mi informai.
«Quali indigeni?» rispose il tedesco-americano.
Ha piovuto per due giorni interi. Era, a quanto pareva, la stagione delle piogge, e poi non avrebbe più piovuto per mesi. A piedi scalzi, in costume da bagno sotto l’impermeabile, andavo a spasso in strade trasformate in torrenti e leggevo i manifesti.
Fortunatamente non c’erano navi in partenza per i successivi quindici giorni, altrimenti sarei fuggito.
Su un tavolo dell’albergo trovai, stampati su carta giapponese dai torchi della colonia, i discorsi dei pezzi grossi del luogo, e lessi tra gli altri:
«Signore, Signori, Uomini di genio come Bougainville, Pierre Loti, Paul Gauguin hanno dato lustro a Tahiti con opere immortali, e ora Ombre bianche, L’isola del sole, il talentuoso Tabù, Mr. Robinson Crusoe con Douglas Fairbanks e molte altre meraviglie cinematografiche stanno rendendo la nostra isola celebre ovunque. Di tutta la Francia d’oltremare, Tahiti è il luogo di cui si parla di più».
E alla pagina 6 dello stesso discorso:
«Tra i miglioramenti in materia di bilancio ho il piacere di ricordare quelli che riguardano la riduzione delle retribuzioni dei funzionari pubblici e dei militari... I funzionari, che nel 1886...».
Al bar, la sera, alcuni giovani in maniche di camicia discutevano:
«Bougainville? È grazie a lui se i maori hanno conosciuto la tubercolosi e la sifilide...».
«Loti? È rimasto tre settimane a Tahiti e non ha visto niente, non ha capito niente...».
Quanto a Gauguin, un antiquario ebreo originario della Svizzera tedesca cercò di vendermi a buon prezzo la prova certa che era stato avvelenato da un poliziotto.
Uff! Pioveva sempre e la vita sembrava così triste, attraverso le zanzariere che ingrigivano il paesaggio, da farmi venire sempre più voglia di scappare. Mangiavo piatti americani in mezzo a turisti americani. Meno male che per dare un po’ di colore locale le americane, grasse o magre che fossero, nonostante il brutto tempo si ostinavano a vivere in pareo. Erano le uniche! Un signore cenava in slip, sfiorando la minestra con i peli del petto. Tutto questo faceva tanto Saint-Tropez, ma sotto una pioggia degna di Dieppe o Boulogne.
«Il governatore ha detto a un pezzo grosso che...».
«Sembra che arresteranno un impiegato delle poste che apre la corrispondenza...».
«Il direttore del carcere, al mercato, ha sentito un poliziotto confidare a un’indigena...».
* * *
Finalmente apparve la colomba con il suo rametto d’ulivo e Noè aprì le porte dell’arca. Voglio dire che smise di piovere, che spuntò il sole, che le pozzanghere scomparvero come per incanto e che una mattina partii per fare un giro dell’isola in macchina.
Cinque ore dopo, prendevo in affitto per due mesi la casa di Murnau, il regista di Tabù, che fu anche la casa di Douglas Fairbanks, dopo esserlo stata di Charlie Chaplin.
Scoppiavo di gioia e di ottimismo, come il cielo. Non stavo più nella pelle, e gridai:
«Rimango! Ho la casa più bella del mondo, nel paese più bello del mondo, in riva alla laguna più bella del mondo...».
«E i Tupapau?» fu la replica.
«Chi?».
«I fantasmi maori... Murnau è morto pochi mesi dopo aver costruito la casa... Nessuno è mai riuscito ad abitarci per più di un mese... Per esempio Douglas, l’intrepido Douglas... Due giorni dopo il suo arrivo lo trovarono tutto tremante, in pigiama, a Papeete... Era scappato dalla casa perché i Tupapau volevano strangolarlo, e non ha mai più voluto rimetterci piede».
Sta di fatto che ho ritrovato le sue pantofole. Ma cerchiamo di raccontare i fatti con ordine.
Mi sono svegliato in una casa senza porte né finestre, in quanto priva di pareti, tra le palme da cocco, mentre gli storni tristi garrivano e l’orlo dell’oceano si infrangeva con un suono d’organo sulla scogliera che circonda la laguna.
Pura poesia! Non lo dico per scherzo. È semplicemente meraviglioso! Murnau, che ha girato il film Tabù portando delle sudamericane perché interpretassero i ruoli delle polinesiane, ha costruito questa casa a una ventina di chilometri da Papeete sul modello delle vecchie case tahitiane, ovvero usando solo bambù e canne intrecciate. Solo che ci sono l’elettricità, l’acqua corrente, il bagno e il frigorifero.
Ho subito noleggiato un’auto, una Ford ultimo modello, e mi aspettavo di dover sbrigare tutte le formalità.
«Un’auto? Scelga pure!» mi hanno detto al garage.
«Ma... Per l’assicurazione?... Il pagamento?...».
«La prenda! Quando non ne avrà più bisogno, la riporterà qui».
«Ma non sa neanche come mi chiamo...».
«E allora? Non scapperà mica in aereo?».
Certo che no. Siamo su quest’isola e c’è solo una nave al mese. Il garage appartiene a un tahitiano bonario che mi dà del tu già dal secondo giorno. Si atteggia a ragazzaccio, se ne sta con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, la sigaretta incollata al labbro inferiore.
«Se vuoi delle belle ragazze e dei musicisti...».
Un altro po’ di geografia, ora che ho fatto il giro dell’isola. Immaginate una specie di pan di zucchero roccioso, ma di zucchero ricoperto di alberi e di vegetazione. È la montagna dell’isola ed è totalmente disabitata, totalmente inaccessibile.
Ai piedi del pan di zucchero, un centinaio di metri di terra, tutt’intorno, tra la montagna e il mare. Su questa striscia di terra circolare, palme da cocco, villaggi ogni quattro o cinque chilometri: nient’altro. Oltre la striscia di terra ci sono solo la laguna e l’oceano.
Una sola strada, quindi, che attraversa alcuni fiumi, a volte passandoci sopra, grazie a dei ponti di legno, a volte passandoci dentro, grazie a un massetto.
Ecco pressappoco Tahiti, il cui perimetro è di circa centocinquanta chilometri.
L’unica città si chiama Papeete e ha solo tre o quattro case di pietra, mentre il resto è tutto di legno e lamiera ondulata. D’altronde è più un giardino che una città, poiché le case sono immerse nella vegetazione e c’è un tale guazzabuglio di alberi che a stento si intravedono le strade.
Tre banconi dove si vende di tutto fungono da grandi magazzini e, ovviamente, sono gestiti da stranieri. Quanto alle botteghe, sono tutte in mano ai cinesi. Il bar americano, invece, appartiene a un lussemburghese, ma c’è almeno un posto gestito da un francese: il locale notturno, che non chiamo in un altro modo per eufemismo, e che del resto è stato relegato a dieci chilometri da Papeete, per pudore e per prudenza. (…)
Ormai so tutto anche dell’«affaire Stavisky» di Tahiti. Ma quella è una storia di cinesi.
Dunque, alcuni cinesi fondano una grande impresa commerciale chiamata Società Kong- Ha. Dilapidano diversi milioni dei loro clienti. Viene accordata loro la liquidazione giudiziaria e vengono nominati curatori alcuni bianchi, tra cui Manier.
A quanto pare, tutti fanno i furbi, Manier si riempie le tasche, alcuni magistrati e funzionari lo proteggono, e alla fine ci si accorge che in un anno il passivo è quasi raddoppiato.
Nessuno si raccapezza con i libri contabili, che sono in cinese!
«E questi duecentomila franchi?». «Quali duecentomila franchi?».
«E questa barca?».
«Quale barca?».
«Lei ha preso del denaro, caro signore!».
«Lei, caro signore, è un...».
«Lei è venduto alla sinistra...».
«Lei è venduto alla destra...».
«Mafioso!».
«Pederasta!».
«Esco dal Circolo Loti!...».
«Diamine! Lei è già stato messo alla porta del Circolo Bougainville».
«Noi abbiamo lasciato in massa il suo locale...».
«E noi, noi la faremo mettere in galera...».
Ognuno mi tira per la giacchetta. Gli uni vogliono portarmi dalla parte di Manier. Gli altri cercano di mettermi in guardia.
«Stia attento! La fregheranno...».
«Vedrà che le consegneranno dei documenti falsi...».
E io che ero venuto per vedere se veramente le tahitiane erano il non plus ultra in amore! Ma, a proposito, dove sono le tahitiane| Finora ho visto soltanto bianchi che bisticciano, che bisbigliano agli angoli delle strade, che si danno misteriosi appuntamenti e comunicano in codice.
«È dei loro?».
«No, ma presto lo sarà!».
Alludono alla mafia, come già viene chiamata la banda di Manier.
E, per non essere da meno che a Parigi, fanno circolare delle petizioni.
«... in nome del Diritto e della Giustizia chiediamo che Manier venga immediatamente rimesso in libertà e che...».
«Ma i dodici milioni?».
«Che importanza hanno i dodici milioni! Ognuno ha avuto la sua parte!».
Chissà come se la ridono, i cinesi. Sono circa duemila a Tahiti, duemila che monopolizzano quasi tutto il commercio e che tengono i conti in cinese, e che per di più hanno dei francesi al loro servizio per fare da paraurti!
*
Una tahitiana comunque l’ho vista, l’indomani mattina. Percorrevo la strada in macchina, tra la montagna e dei filari di palme da cocco. Lei veniva verso di me in bicicletta, con addosso solo un pareo.
Ho rallentato e le ho sorriso. È smontata di sella per salutarmi.
«Lei è dannatamente carina» le ho detto.
Il suo sorriso si è allargato. Ho posato lo sguardo sul petto che il pareo, aderentissimo, metteva in risalto. Allora, con nonchalance, lei ha fatto in modo che il pareo scivolasse un po’ per mostrarmi almeno uno dei seni.
«Arrivederci...».
Sembra un sogno, ma ora so che non è un sogno, e che le tahitiane che hanno un bel seno sono felici di mostrarlo, così, per il piacere di vedere contenti i vostri occhi e, perché no, soddisfatte le vostre mani.
In pieno sole... sulla strada su cui il cinese passa con il suo carretto pieno di prodotti... mentre dei bambini nudi corrono...
Perché, se i bianchi fanno politica, i tahitiani ancora pensano solo a fare l’amore...