Tuttolibri, 4 dicembre 2021
Il dizionario, una macchina dei sogni
Cosa c’è di più ragionevole di un dizionario? Il dizionario informa, spiega, educa persino, per poco che lo si voglia leggere e non solo consultare; senza lunghi discorsi, senza vana retorica, distribuisce il sapere sobriamente, democraticamente, a chiunque lo solleciti. Al tempo stesso, questo oggetto robusto, anche un po’ semplicistico se si pensa all’intrico di fatti, nozioni, sostanze di cui è composto il mondo, investe senza dirlo (niente è meno verboso di un dizionario) i problemi più gravi, più brucianti, e forse addirittura più vertiginosi che lo spirito umano abbia avuto occasione di conoscere e dibattere.
Il primo di questi attiene all’infinità delle parole di una lingua. Nessuno sa di quante parole si componga la lingua francese. La lingua cambia di minuto in minuto, di luogo in luogo, al ritmo delle innumerevoli frasi che vengono pronunciate; a volte una parola nuova (nemmeno: un semplice «balbettio») si diffonde, si propaga, attecchisce, la si può catturare, versare nel dizionario (da cui, forse, presto uscirà). Il dizionario lotta senza sosta contro il tempo e lo spazio (sociale, regionale, culturale), ma è sempre sconfitto: la vita rimane più ampia, più rapida, travalica non tanto il linguaggio quanto la sua codificazione. È per questo che c’è un continuo bisogno di nuovi dizionari. Ed è per questo che con ogni nuovo dizionario torniamo a una certa idea dell’essenziale: poiché il numero delle parole è ingestibile, scegliamo una pertinenza (di specialità o di pubblico) che ci libererà dall’angoscia dell’infinitezza e produrrà un dizionario finito, perché selettivo; lo si potrà maneggiare con fiducia, ma non inganniamoci: sarà soltanto la punta dell’iceberg. Perlomeno, sapendolo, avremo intravisto dietro questo modesto oggetto, che molti considerano un semplice strumento di verifica, l’enigma proprio dell’universo: il suo infinito, o, detto con un termine meno metafisico, la sua sottigliezza.
Ed ecco una seconda vertigine. Si raccolgono delle parole, se ne dà la definizione: nasce un dizionario. Si raccolgono delle cose (nominandole, ovviamente), se ne dà la descrizione: nasce un’enciclopedia. Talvolta, com’è qui il caso, le due operazioni si sposano, e si produce un dizionario delle parole e delle cose, un dizionario enciclopedico. Sebbene la complementarità di queste due funzioni, l’una normativa (stabilire l’uso delle parole), l’altra oggettiva (descrivere la particolarità delle cose), sia stata sentita, in Francia, a partire dal XVII secolo, non credo che questi dizionari-enciclopedie siano numerosi. È una constatazione abbastanza paradossale, perché in effetti – ed è su questo punto che sorge un enorme dibattito filosofico – ogni parola richiama una cosa, o una nebulosa di cose, ma al tempo stesso nessuna cosa può umanamente esistere se non è presa in carico, consacrata, assunta da una parola. Le parole rimandano alle cose? Sì, ma anche, in uno stesso movimento, ad altre parole. La separazione delle cose e delle parole in due ordini distinti e gerarchizzati è dunque un fenomeno ideologico, com’è stato mostrato da Michel Foucault. Tale separazione implica l’adesione a una filosofia realista che pone la cosa in sé, al di fuori del soggetto che la enuncia, e fa della parola un semplice strumento della comunicazione: visione alla quale si opponeva, nel Medioevo, una tradizione nominalista, vinta, come si sa, dallo spirito moderno. Dalla vittoria del realismo in poi, crediamo di parlare da un lato e di fabbricare dall’altro: da un lato discorriamo, impreziosiamo, idealizziamo; dall’altro costruiamo, produciamo, vendiamo, ci impossessiamo; da un lato l’arte (delle parole), dall’altro la scienza (dei fatti). Nonostante ne sia stato storicamente il prodotto, il dizionario, a ben vedere, fa vacillare questa razionalità borghese, poiché per descrivere la cosa, per passare dalla parola alla cosa, ci vogliono altre parole, e così all’infinito. Per esempio: cos’è la «faccia»? Una parte del cranio. Ma cos’è una «parte», un «cranio»? Perché siamo più legittimati a soffermarci qui piuttosto che là? Dove finiscono le parole? Cosa c’è al di là? Per l’uomo il linguaggio non è soltanto un privilegio, è anche una prigione. È questo che ci ricorda il dizionario.
Infine, ed è l’ultima sorpresa di questo oggetto noto per la sua saggezza, il dizionario travalica la sua utensilità. Crediamo sia uno strumento di conoscenza indispensabile, ed è vero, ma è anche una macchina dei sogni: generandosi in un certo senso da sé, di parola in parola finisce per confondersi con il potere dell’immaginazione. Se le si sfoglia, come si è continuamente tentati di fare, le pagine di un dizionario lasciano sfilare davanti alla mente, o, se è illustrato, sotto gli occhi, i grandi oggetti portatori di sogno: i continenti, le epoche, gli uomini, gli strumenti, tutti gli accidenti della Natura e della società. Paradosso prezioso: il dizionario familiarizza, acclimata e al tempo stesso disorienta, fa divagare; consolida il sapere e smuove l’immaginazione. Ogni parola è come un vascello: all’inizio sembra chiusa su se stessa, ben stretta nel rigore della propria corazza, ma diviene facilmente una partenza, evade verso altre parole, altre immagini, altri desideri: ed ecco il dizionario dotato di una funzione poetica. Mallarmé e Francis Ponge gli hanno attribuito un raffinato potere di creazione. L’immaginazione poetica è sempre precisa, ed è la precisione del dizionario a motivare la gioia che i poeti, e spesso anche i bambini, provano nel leggerlo.
A queste funzioni, filosofiche e poetiche, bisogna aggiungere il ruolo eclatante che il dizionario ricopre in seno a una società storicamente definita, come la nostra. In forme diverse, il dizionario è stato coinvolto, in Francia, nelle grandi battaglie d’idee. Nato nel XVI secolo, ossia all’alba dei tempi moderni, ha accompagnato in modo dinamico, a volte militante, la conquista di uno spirito di oggettività, e dunque di tolleranza; mediatore di un sapere accessibile a chiunque, ha partecipato alla costituzione di una pratica democratica della conoscenza. Oggi si pone tuttavia una nuova questione. La diffusione del sapere non dipende più soltanto dai libri (e, di conseguenza, dai dizionari), ma anche (soprattutto?) da ciò che chiamiamo mass media; e siccome questa diffusione è capillare, labile e vaga (perché affidata all’oralità, e non più alla scrittura), il sapere assume una sorta di falsa naturalezza: ascoltiamo (più di quanto non parliamo), ci lasciamo impregnare, scivoliamo da un’approssimazione all’altra, senza mai verificare nulla; le parole divengono miti incoscienti, entrano al servizio di questo potere molle (perché anonimo) oggi esercitato da stampa, radio, televisione: ci parlano sempre di più, e parliamo sempre peggio.
Il dizionario ci richiama all’ordine. Ci dice che non esiste nessuna vera comunicazione, nessuna interlocuzione leale, al di fuori di un uso rigoroso delle sottigliezze della lingua. A volte sento alcuni imputare a un autore l’utilizzo di un «gergo». Avrei voglia di rispondere loro, come fece Valéry: «Appartenete forse a quella categoria di persone per le quali il dizionario non esiste?». Il dizionario ci ricorda che la lingua non è data una volta per tutte e in modo innato, che nessuno è di per sé il canone della chiarezza, che la buona comunicazione non può essere il frutto della mollezza verbale: insomma, che ciascuno deve lottare con il linguaggio – vasto, potente e contorto -, che questa lotta è incessante e richiede armi come il dizionario. L’esistenza ostinata e sempre rinnovata dei dizionari, la cura con cui sono concepiti e prodotti indicano che è riposto in loro una sorta di auspicio sociale: se i conflitti umani sono inevitabili (è quanto ci viene assicurato), che ciò non accada mai per colpa di un malinteso di parole. Le parole, purtroppo, non sono né vere né false, ma possono essere intonate: è a questa musica dei rapporti di linguaggio che ci invita un buon dizionario.