Tuttolibri, 4 dicembre 2021
Enrico Brizzi ricorda Tondelli
«Ma tu li hai letti per bene i consigli di Pier Vittorio Tondelli ai giovani narratori?».
Fu questa la domanda che mi sentii porre la primissima volta che un editore accettò d’incontrarmi. Correva il febbraio del 1992, ci si trovava ai piedi delle Due torri di Bologna, io avevo diciassette anni e l’editore si chiamava Massimo Canalini.
Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore di culto d’una generazione, era scomparso da appena tre mesi, e persino i liceali distratti come me erano rimasti colpiti dalla copertina dell’Espresso che lo celebrava con un ritratto in bianco e nero accompagnato dal crudo titolo a lettere giallo neon «Lui e l’Aids».
Canalini aveva collaborato con lui negli ultimi anni a un’iniziativa editoriale coraggiosa, consacrata all’esplorazione della narrativa giovanile: l’autore di Altri libertini, infatti, aveva lanciato un generoso appello rivolto ai ragazzi sotto i 25 anni affinché inviassero alla sua attenzione i loro racconti, aveva selezionato di persona i più significativi e si era impegnato a lavorare con i loro autori sull’editing dei testi.
Il risultato di quella ricerca appassionata e gratuita era arrivato con discreto clamore sugli scaffali delle librerie: le tre antologie del progetto «Under 25», uscite fra il 1987 e il 1990, avevano suscitato l’apprezzamento della critica e innescato un processo di emulazione fra i più giovani.
C’era uno scrittore famoso al quale interessava sapere cos’avevano da raccontare gli «scarti», i ragazzi non omologati, i provinciali estranei al rarefatto sistema editoriale; questo si raccontava a Bologna, e il cortocircuito definitivo s’era prodotto quando una delle ragazze selezionate da Tondelli, Silvia Ballestra, aveva dato alle stampe il suo romanzo d’esordio ambientato nella nostra città. Il compleanno dell’iguana raccontava il mondo dei ragazzi appena più grandi di noi, fra le disastrate stanze che la nostra città affittava a caro prezzo agli universitari fuori sede, le sale-studio frequentate senza troppa diligenza dagli studenti del Dams e il fervore autogestito dei centri sociali.
Se «Under 25» aveva dimostrato che anche i più giovani avevano qualcosa di interessante da raccontare, quel libro era la prova definitiva che per diventare scrittori non serviva una solida formazione filologica né una biografia avventurosa. La novità inaudita era che si poteva creare un romanzo dal basso, lavorando sulle occasioni, i dialoghi e gli incontri graziosamente offerti in dono dalla vita reale, e se lo facevano gli universitari, perché non avremmo dovuto provarci noialtri liceali?
Così, sul finire del 1991, avevo inviato in redazione il mio primo racconto, nella malcelata speranza che venisse preso in considerazione per un eventuale quarto volume.
E ora che Tondelli era scomparso, l’editore che aveva lavorato gomito a gomito con lui mi domandava se avessi fatto tesoro dei suoi consigli.
«Ho letto Altri libertini» mi tenni sul vago. «Mi è piaciuto molto».
Canalini diede un sospiro paziente, quindi estrasse dalla tasca dell’impermeabile una fotocopia, la spiegò nella magnificenza del formato A4 e me la consegnò. «Leggi ad alta voce» dispose.
Si trattava dell’articolo pubblicato da Tondelli su un numero di Linus del 1985 che aveva titolo Gli scarti, ovvero il primo degli appelli che lo scrittore aveva rivolto ai giovani.
«Perché non raccontate quello che fate, che sentite» cominciai a leggere con voce tremante. «I vostri tormenti, i vostri rapporti a scuola, con le ragazze, con la famiglia. E perché di queste cose, poi – visto che ne avete voglia – non provate a formularne un giudizio? Perché non scrivete pagine contro chi odiate? O per chi amate?».
Ero stupefatto. Non avevo mai ascoltato prima quelle parole, ma ora che uscivano dalla mia stessa bocca mi sembrava di conoscerle da sempre. Canalini mi fece cenno di proseguire.
«C’è bisogno di sapere tutte queste cose» ripresi. «Siete gli unici a poterlo fare. Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto. Nessuno scrittore. Sarà sempre qualcosa di diverso. Siete voi che dovete prendere la parola e dire quello che non vi va o che vi sta bene. Siete voi che dovete raccontare».
Mi ritrovai a reggere il foglio a mezz’aria, sospeso fra lo stato d’animo di chi si sente chiamato a una missione sacra e l’amara consapevolezza di avere perso tempo sin lì lungo una strada sbagliata. All’improvviso mi vergognavo profondamente del racconto che avevo mandato, una narrazione pretenziosamente sincopata a metà strada fra il romanzo d’azione e il plagio sfrontato di Blade runner.
«Bene» disse Canalini. «Dimentica il racconto che hai scritto, e prova a mettere insieme una storia autentica. Ci sarà qualcosa, nella tua vita, che ti fa battere il cuore. È di quello che devi scrivere».
Quel giorno rincasai confuso, stringendo come un tesoro la fotocopia de Gli scarti e un elenco di libri che dovevo studiare con attenzione: accanto all’opera omnia di Tondelli c’erano Boccalone di Palandri e Treno di panna di Andrea De Carlo, Charles di Piersanti e Lo stadio di Wimbledon di Del Giudice, Ballo di famiglia di Leavitt, Le mille luci di New York di McInerney e i primi romanzi di Bret Easton Ellis.
La storia autentica ce l’avevo sottomano e mi faceva battere il cuore come mai era accaduto prima, così buttarla giù non richiese troppo tempo.
Fu allora che cominciò l’avventura: venni ammesso alla redazione anconetana della casa editrice, dove conobbi in un clima informale e a dir poco eccitante Silvia Ballestra e i suoi compagni d’avventura «Under 25» come Romolo Bugaro e Raffaella Venarucci, l’autore di noir Lorenzo Marzaduri e tanti altri. Erano impegnati chi a scrivere il primo romanzo e chi il secondo, pubblicavano racconti sulle riviste letterarie e articoli per settimanali ad alta tiratura, eppure ognuno di loro trovò un po’ di tempo per me, proprio come aveva fatto con loro Tondelli, che tutti chiamavano affettuosamente «il Pier»; sin lì mi ero dovuto accontentare dei giudizi sui temi in classe, e ottenere la loro attenzione e i loro consigli mi spalancò un mondo nuovo, in cui l’attività solitaria della scrittura non era che il primo passo verso un’operazione corale di editing, e si poteva fare notte discutendo circa il punto di vista del narratore, il ritmo delle frasi e la musicalità d’un certo dialogo. Sulla scorta dei consigli altrui si tagliava a mani basse e si creavano in diretta sequenze ex novo, e nelle pause si ascoltavano a tutto volume i Beatles e i Led Zeppelin, Joe Jackson, i Bronski Beat e gli altri autori che Tondelli aveva selezionato come colonna sonora del suo romanzo più pop, Rimini.
La musica aveva un ruolo nella scrittura, aveva spiegato ai suoi ragazzi, dunque si portava avanti quella che era stata la sua pratica: prima di dare per buono un capitolo o una singola scena bisognava leggere e rileggere con voce chiara, alla ricerca di inciampi inopportuni e assonanze da valorizzare, perché «una buona pagina è una pagina che si lascia leggere bene ad alta voce».
«Cosa ne avrebbe detto il Pier?» era la domanda che aleggiava in permanenza. Il ritratto dello scrittore che campeggiava in redazione ci invitava, con severa dolcezza, a lavorare duro senza farci sconti a vicenda. Solo quando si considerava che il nostro nume tutelare si sarebbe detto soddisfatto un testo era ritenuto pronto per la pubblicazione.
Lavorai due anni sul mio romanzetto d’esordio Jack Frusciante è uscito dal gruppo, che uscì nell’estate del 1994 nella modestissima tiratura di duecento copie; oggi è considerato uno dei testi-simbolo di quella stagione insieme al Compleanno dell’iguana e Tutti giù per terra di Giuseppe Culicchia, un altro veterano delle antologie «Under 25».
«Dai loro frutti li riconoscerete» sta scritto e, al di là del valore che si vuole attribuire a questi libri, resta un dato inoppugnabile, ed è appunto l’importanza di Pier Vittorio Tondelli come faro per una generazione di giovani sin lì sfuggiti al sistema delle lettere, la sua lungimiranza nella ricerca, il suo ruolo nella democratizzazione della scrittura, la forza quieta e affettuosa del suo insegnamento. —