Tuttolibri, 4 dicembre 2021
Intervista a Don Winslow
Mi dice di avere tutto il tempo per questa intervista: l’unico impegno che ha per la mattinata è andare a cambiare l’olio alla macchina. Don Winslow, 68 anni, cresciuto nel Rhode Island ma da anni cittadino californiano, è il contrario dello scrittore da torre d’avorio, sarà perché si è mescolato a lungo con l’umanità varia delle bettole di Times Square dove faceva l’investigatore privato – dopo almeno un’altra mezza dozzina di lavori eccentrici, dall’accompagnatore di safari in Kenya alla guida escursionistica in Cina – e anche perché è uno che non ha paura a rispondere alle provocazioni dei bulli, «verbalmente» ci tiene a precisare. Dall’inizio dell’era trumpiana, infatti, Winslow non si limita più a scrivere i romanzi crime (tra i) più belli del mondo, ma presidia quotidianamente i social (Twitter soprattutto) per smascherare le falsità dette dall’ex presidente e dai suoi solerti alleati: una vera missione, anche se a lui non piace metterla in questo modo. Ci parliamo – lui è sotto il porticato della sua casa fuori San Diego – in occasione della nuova edizione italiana di Morte e vita di Bobby Z, il romanzo che quando uscì nel 1997 gli cambiò la vita, e che diventò anche un film con Paul Walker e Lawrence Fishburne.
Iniziamo da qui. Oggi lo scriverebbe in modo diverso?
«Allora ero a un punto morto della mia carriera di scrittore. Lavoravo come investigatore facendo il pendolare in treno ogni giorno fino a Los Angeles, un’ora e venti all’andata, altrettanto al ritorno. A un certo punto mi resi conto che, nel tragitto, mi divertivo di più a scrivere che a leggere: iniziavo un capitolo e poi, appena sentivo il capotreno annunciare “dieci minuti a Union Station!”, qualsiasi cosa stesse accadendo al mio protagonista Tim, chiudevo il capitolo. Stessa cosa al ritorno. Nel giro di qualche mese mi sono ritrovato tra le mani un libro intero nato così, per divertimento. La differenza è che oggi non scrivo più sui treni e in ogni caso, anche se penso di essere migliorato come scrittore, non credo riuscirei a dargli quello stesso ritmo e quella stessa energia».
In che modo “Bobby Z” le ha cambiato la vita?
«Come le ho detto, come scrittore ero morto. Per cui mi stupì moltissimo quando il mio agente disse che voleva provare a venderlo a un produttore cinematografico ancora prima che a un editore. Gli dissi: “Sei pazzo, non lo venderemo comunque a nessuno”. Quel giorno io e mia moglie avevamo chiamato una babysitter perché volevamo andare al cinema – al pomeriggio i biglietti costavano la metà e per noi era un affare – e invece l’agente mi disse che avrei dovuto restare vicino al telefono. Così ci ritrovammo io, mia moglie e la babysitter ad aspettare una chiamata, che arrivò. Mi offrirono una cifra che io, nella mia vita, non avevo mai visto, ma avrei dovuto accettare entro 20 minuti. Fu allora che mi sentii dire: “Io non faccio affari in questo modo, potete tenervi l’offerta”. Buttai giù: per i successivi venti minuti mi dissi di essere la persona più idiota sulla Terra, avere buttato via tutti quei soldi! Poco dopo mi richiamarono e mi offrirono cinque volte tanto, scusandosi pure. Accettai subito. La mia vita cambiò, ma non subito, perché avevo ancora dei casi da portare a termine ed eticamente non potevo mollarli».
Questo è stato il primo libro nel quale si è occupato del traffico di droga tra Stati Uniti e Messico, che poi è diventato il fulcro della trilogia composta da “Il potere del cane”, “Il cartello” e “Il confine”.
«Esatto, e me ne interessai semplicemente perché vivevo proprio in quei luoghi. Guidando nel deserto, avevo incontrato spesso i compound che servivano da luoghi di scambio. Però è stato solo nel Potere del cane che ho iniziato a fare seriamente ricerca sull’argomento».
Quando ha capito che avrebbe voluto fare lo scrittore?
«L’ho sempre saputo da quando avevo 5 o 6 anni, ma c’è stato anche un periodo, attorno ai venti, in cui avevo quasi rinunciato perché pensavo che non sarei mai riuscito e che la delusione sarebbe stata troppa. Poi verso la fine degli anni Ottanta mi ero ritrovato in Kenya. Stavo malissimo perché mi ero preso la malaria, ed è stato allora che mi sono detto: “Basta parlare, fallo sul serio”. Da allora ho iniziato a scrivere cinque pagine ogni giorno, in qualsiasi condizione».
Perché proprio i crime? Li leggeva da ragazzo?
«No! Fino ai 12 anni credo di non avere mai letto un romanzo. Leggevo solo biografie, Oscar Wilde e John Keats per esempio, e continuo a farlo tuttora perché sono un grande appassionato di storia. Leggevo anche Shakespeare e cercavo di impararlo a memoria».
Lo ricorda ancora?
«Certo, saprei ripetere l’orazione funebre di Antonio del Giulio Cesare. I polizieschi sono arrivati dopo, a New York, quando lavoravo per strada come investigatore tra prostitute e delinquenti e iniziai a leggere Lawrence Block, Elmore Leonard e Raymond Chandler. Mi innamorai di quella prosa. Inoltre, ero da sempre un fan del jazz e le due cose vanno insieme, perché il jazz è la colonna sonora del noir».
Mi spieghi.
«Si dice spesso che il finale di un crime deve essere allo stesso tempo sorprendente e inevitabile. Per anni mi sono sembrate due cose opposte. Poi un giorno, ascoltando Sonny Stitt suonare il classico Everything Happens To Me, ho capito che cosa intendevano: il brano finisce con un certo accordo, che è quindi inevitabile, ma le note che usa per arrivarci sono sorprendenti. Così funzionano anche i noir: devi finire in un certo modo, ma come ci arrivi è jazz».
Lo aveva già capito quando ha scritto Bobby Z?
«In quel romanzo ho imparato a usare il tempo presente: prima scrivevo al passato e mi annoiavo da solo, si figuri il lettore. Poi ho provato con il presente, che è come il jazz, improvvisazione. Invece che guardare un tavolo e descrivere che cosa c’è sopra, è come vedere quello stesso tavolo capovolgersi davanti ai miei occhi. Fu una vera rivoluzione e credo abbia cambiato per sempre il mio modo di scrivere».
Quando ha ricevuto la chiamata dell’attivismo politico?
«Non la chiamerei chiamata, piuttosto responsabilità. Quando Trump è stato eletto, con il mio agente abbiamo deciso che, qualunque piattaforma avessimo avuto, l’avremmo usata per dire la verità. Avevo l’impressione che i liberal fossero troppo gentili, mentre quella sarebbe stata una lotta con i coltelli alla quale mi sentivo in grado di rispondere. A parole, ovviamente, perché non intendo in nessun modo promuovere la violenza».
Ha avuto dei problemi?
«A volte. Se decidi di buttarti in una rissa, qualche pugno in faccia devi metterlo in conto. Però quello che ho visto finora dei trumpisti e dei sostenitori della destra è che sono esattamente come i bulli della scuola: fanno i duri, ma se qualcuno gli dà un pugno sul naso vanno a piangere dalla maestra. Sono tutti così. Codardi, sul piano fisico e morale».
Quindi Biden continua a convincerla.
«Credo che sia un essere umano fondamentalmente decente, così come Trump è un essere umano fondamentalmente indecente. Sono soddisfatto di lui personalmente? Sì. Sono soddisfatto di quello che ha fatto finora? No, ma sono assolutamente certo che abbia fatto del suo meglio. Pensi solo a quale sarebbe stata l’alternativa».
Ho molto amato il suo “La pattuglia dell’alba”. Continua a uscire in surf?
«Sì, anche se non sono più bravo come un tempo. A volte faccio bodysurfing: non c’è niente tra te e l’oceano, sei dentro l’onda, è incredibile. È facile romanticizzare la spiritualità del surf, ma di certo l’oceano ti rimette al tuo posto, non gli importa niente se ci sei o no, sei tu a doverci fare i conti. Nei momenti più tristi della mia vita sono sempre andato fino all’oceano per trovare sollievo, e vorrei che le mie ceneri fossero sparse lì. Con i miei amici faccio sempre una battuta un po’ macabra: “Non prenderete mai quelle onde senza di me"». —