Robinson, 5 dicembre 2021
Intervista a Enrico Malato
L’uomo emana un certo piglio autoritario. I modi sono sbrigativi ma in certi momenti anche affabili. È come se dicesse: non ho tempo da dedicare a null’altro che non siano le mie ricerche dantesche. Enrico Malato, 86 anni, è a capo della Salerno editrice che il prossimo anno compirà 50 anni. Si potrebbe insinuare, senza ironia, che sembra un signore di altri tempi.Professore, da dove cominciamo: Dante o la casa editrice Salerno?«Allude ai due anniversari, immagino. Quello di Dante si conclude quest’anno. Mentre la Salerno celebrerà il mezzo secolo nel febbraio del 2022, quando davanti al notaio firmammo l’atto costitutivo della casa editrice.Quanto a scegliere da dove cominciare decida lei. Dante ha arricchito enormemente la casa editrice ma è pur vero che la Salerno si è occupata anche di altro. Però posso dirle con franchezza che ho dedicato la mia vita alle due imprese».Oltre che editore lei è anche il curatore dell’edizione nazionale delle opere di Dante. Non è un po’ troppo?«Perché?».Dedicarsi seriamente a Dante può essere un problema, anche solo di tempo a disposizione.«Nei due ruoli che da anni porto avanti sono un po’ un’eccezione, lo riconosco. E potrei risponderle che l’interesse per Dante precede quello per la casa editrice. Nel momento in cui ho deciso di dar vita all’edizione nazionale delle opere di Dante mi sono avvalso dei contributi dei migliori specialisti su piazza. Ora che l’opera è a buon punto posso confessare che non ci sarei mai riuscito senza quel centinaio di collaboratori che ha preso parte a questa grande e spericolata avventura».Spericolata perché?«Se l’immagina coordinare e intervenire su questo lavoro enorme? Davvero è stato come entrare in una “selva oscura”».Il suo interesse per Dante a quando risale?«Una passione nata sui banchi del liceo. Poi nel 1965-66 divenni collaboratore dell’Enciclopedia dantesca, per la quale stilai diverse voci. A cavallo tra il 1967 e il 68 Giorgio Petrocchi uscì con la sua edizione della Divina Commedia che, su suggerimento di Salvatore Battaglia, recensii ampiamente».Cosa aveva di particolare quell’edizione?«Petrocchi fu un dantista notevole, tra l’altro quest’anno è ricorso il centenario della sua nascita. Partì dall’idea che i commentari della Divina Commedia erano troppi per poter costruire un’edizione attendibile. Invece di riordinare gli oltre seicento codici danteschi giunti fino a noi, decise di concentrarsi sull’ “antica vulgata”, cioè sui manoscritti in circolazione prima dell’edizione preparata da Boccaccio, grosso modo una trentina di commentari».L’idea fu di avvicinarsi il più possibile alle prime fonti dantesche?«L’intento fu ovviamente questo, nella consapevolezza che più di una edizione critica avrebbe fornito un testo base».Perché fermarsi però a prima di Boccaccio?«Boccaccio fu un grandissimo ammiratore di Dante e commentatore della sua opera. Ora, senza scendere nei dettagli, il lavoro che egli fece sul testo dantesco, sebbene animato dalla giusta esigenza di correggere i numerosi errori delle precedenti edizioni, finì con inquinarlo ulteriormente. Tanto più grave fu la cosa in quanto la Commedia nella trascrizione del Boccaccio ebbe una notevole fortuna nel tardo Trecento e nel Quattrocento, contribuendo in questo modo ad alimentare la confusione».Da cosa dipendevano i numerosi errori?«È importante una premessa: la Commedia, nella sua fortuna immediata, ebbe prestissimo numerosi lettori e trascrittori di notevole livello culturale. A fronte del successo si moltiplicarono gli errori dei copisti che in buona fede o per ignoranza intervennero emendando e correggendo il testo. Fu la rapidissima diffusione delle copie a favorire la proliferazione degli equivoci.Oltretutto, il poema si impose anche per la sua diffusione orale, provocando una vera e propria contaminazione mnemonica. L’abitudine di mandare a memoria per poi citare o declamare i versi di Dante, contribuì in maniera determinante ad accrescere le ambiguità filologiche».Fu una Commedia degli errori. Ma non c’era un testo “autentico” a cui appoggiarsi?«Per quello che se ne sa non esiste più un testo che esca dalla stessa mano di Dante. Non ci sono autografi. Non c’è nulla che possa attribuirsi direttamente a lui. Perciò nell’impossibilità di mettere ordine nella tradizione manoscritta del poema, Petrocchi provò a stabilire una serie di rapporti genetici tra i codici più antichi e attraverso questi giungere alla costituzione di un testo che riproducesse con la massima fedeltà possibile quello dell’antica vulgata».L’edizione nazionale delle opere di Dante alla quale si è dedicato che progressi ha portato?«Di chiarificazione del testo e di una migliore e sostanziale leggibilità, al punto che anche il lettore non specialista può accostarvisi senza dover subire la frustrazione di trovarsi davanti a un materiale respingente. Ho spiegato queste cose nel mio Introduzione a la Divina Commedia ».Prima parlava dei suoi interessi liceali per Dante. Dove ha studiato?«La parte finale del liceo l’ho fatta a Roma come pure a Roma l’università. Scelsi la facoltà di Giurisprudenza nella convinzione che quella di Lettere non mi avrebbe offerto le stesse opportunità. Mi laureai con Francesco Calasso con una tesi su Pietro Giannone. Oscillavo tra la letteratura e la storia del diritto. Ho di Calasso un ricordo pieno di ammirazione. Ma i maestri ai quali mi sento più legato furono Gianfranco Folena, Antonino Pagliaro e Salvatore Battaglia. Fu la loro grande competenza filologica a guidarmi nello studio della linguistica e a farmi porre le premesse per i successivi studi su Dante».Dove è nato?«A Napoli il 25 dicembre del 1935. Ci spostammo negli anni della guerra a Colleferro perché mio padre come militare dirigeva la produzione bellica. Restammo lì un anno poi nel 1943, nel periodo peggiore, arrivammo a Roma. Nell’inverno 1944-45 io, con mia madre e le mie due sorelle ci trasferimmo, viaggiando su un camion, a Giffoni. Alla fine del 1945 tornammo a Napoli. Mio padre si tolse la divisa e svolse la professione di ingegnere meccanico. Infine nel 1951 per ragioni di lavoro paterne venimmo a vivere a Roma. Non è stata un’infanzia felice.Ma poteva andare peggio. Il distacco da Napoli fu doloroso e di Roma conservavo il ricordo del terrore che provai per il bombardamento di San Lorenzo. Intorno a noi crollavano gli edifici. Uno dei pochi che miracolosamente restò in piedi fu la nostra palazzina».Accennava prima ai suoi maestri. Chi tra loro l’ha davvero aiutata?«Non ho mai avuto dei protettori, anche perché arrivando dalla facoltà di Legge ero considerato un corpo estraneo. Fu Salvatore Battaglia ad aiutarmi concretamente. Viveva a Napoli dove ogni tanto andavo a trovarlo. Passavo con lui interi pomeriggi. Con i suoi allievi aveva dato vita al progetto grandioso di ridisegnare la lingua italiana, grazie al suo monumentale Dizionario. Con lui discussi la messa a punto dei Novellieri italiani che sarebbe diventata la prima collana della Salerno editrice».Perché “Salerno”, visto che non è il suo cognome?«Conobbi negli anni Sessanta Giovanni Salerno che aveva messo in piedi una piccola casa editrice a Milano.In origine era un medico. Sposò la figlia di un facoltoso gioielliere che aveva cospicui depositi alla banca Commerciale. A quell’epoca, parlo dei primi anni Cinquanta, il presidente della Commerciale, Raffaele Mattioli, di fatto proprietario della casa editrice Ricciardi, ideò con Pietro Pancrazi la celebre collana La letteratura italiana. Salerno si mise in testa di fargli concorrenza e su idea di Luigi Firpo varò un progetto per pubblicare i Novellieri italiani ».Lei che c’entrava?«Ero stato, per così dire, imbarcato nell’impresa. E non ero proprio uno sconosciuto. Oltre ai lavori danteschi e iprimi incarichi all’università c’era la collaborazione aNuova Antologia, allora diretta da Mario Ferrara. Poi accadde l’imprevisto. Salerno si separò dalla moglie e conseguentemente dal cospicuo patrimonio familiare.Oltretutto si annunciavano i primi venti della crisi economica, per cui dovevamo prendere la decisione se abbandonare l’impresa o affrontarla. La decisione fu di lasciare il nome che già preesisteva e davanti a un notaio il 2 febbraio 1972 rifondammo la casa editrice. Salvammo il progetto iniziale dei Novellieri italiani e fui io a dirigere fin dall’inizio la collana».Quando avete ampliato il programma?«Nei primi anni Ottanta abbiamo esteso il programma editoriale alla saggistica letteraria e storica, alle Grandi Opere, ai facsimili e ai periodi scientifici. Quello che ho cercato di inseguire è stato un concetto alto di cultura. Il modello, certo inarrivabile, è stato Aldo Manunzio che al valore contenutistico del libro associava la straordinaria cura tipografica. Più che un’impresa commerciale ci riteniamo una “officina di cultura”. Con questo intento sono nate tra l’altro sia l’Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, quelle di Pietro Aretino, le Opere del Tasso e quelle di Orazio e infine Dante. La mia angoscia negli ultimi tempi è di non riuscire a portare a termine il lavoro di rifinitura sulle sue opere».Quanti volumi?«Quelli usciti sono 57. Il piano dell’opera comprende 75 volumi in circa 250 tomi».Perché il piano è così vasto?«Perché sono compresi più di duecento commentari: dal secolare lavoro sull’Inferno fatto dal figlio Jacopo Alighieri nel 1321, anno della morte di Dante, al Duemila».È soddisfatto dei risultati ottenuti?«Abbastanza soddisfatto ma anche afflitto perché non credo che avrò tempo per vedere l’opera completata e poi c’è l’amarezza per aver dovuto fronteggiare una guerra continua che non penso di aver meritato».A che cosa allude?«Mah, c’è stata gente nel mondo della dantistica che non ha visto di buon occhio che io mi occupassi di Dante. Da questo punto di vista credo di aver seminato molto e raccolto poco. Mi pesa dirlo, ma al punto in cui sono mi sento spremuto come un limone. Oggi ho imparato a difendermi ma vivere questi lunghi anni pensando se una parola avrebbe reso felice o scontento qualcuno, non mi ha facilitato le cose. Non è stata una vita semplice. Il nostro lavoro di filologi è anche fondato sulla competizione; e sebbene non abbia mai voluto togliere spazio a nessuno, c’è stato chi mi ha considerato terra di conquista. Il mio epilogo dantesco sarà un opuscolo che la farà inorridire».Inorridire mi pare una parola eccessiva.«Allora diciamo che mi toglierò qualche sassolino dalla scarpa. Ho amato Dante forse perfino al di sopra della mia famiglia, di mia moglie e delle due mie figlie, quasi fosse una religione da venerare e ho desiderato contribuire alla sua gloria».Dante come un dio, ma che pensa di quello a cui di solito ci rivolgiamo?«Ho smesso di credere tanto tempo fa. Come si fa a prendere in considerazione un’entità impalpabile e remota alla luce delle cose che sono accadute e che accadono nel mondo? Parlare del male necessario mi pare una sofisticheria inutile. Come si fa a credere quando milioni di bambini muoiono, quando le epidemie ci devastano. Dov’era, dov’è Dio in tutto questo?».Pensa che Dante se lo sarebbe chiesto?«Oggi forse sì. Allora la sua fede non ha vacillato. Non poteva perché il livello della cultura del suo tempo gli consentiva la spiegazione sovrannaturale del mondo.Sono trascorsi settecento anni dalla sua morte e provo assoluta ammirazione per l’audacia con cui si avvicinò a Dio, ma quello che mi resta è la sua fede, nonostante tutto quello che passò, nel destino dell’umanità, che è il filo conduttore di tutta la sua esperienza esistenziale e di poeta».