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 2021  dicembre 05 Domenica calendario

Barthes lo scrivano


Che cosa vuol dire pensare, avere pensato. Quali tracce lascia. I testi dispersi – e finora inediti in italiano – raccolti in Cos’è uno scandalo offrono qualcosa come la radiografia di una mente. Il quindicenne studente liceale che, a casa dei nonni, glossa un dialogo di Platone. Il sessantacinquenne che, poco prima di morire, riflette sulla ragionevolezza di un dizionario: «Le parole rimandano alle cose? Sì, ma anche, in uno stesso movimento, ad altre parole». Movimento, ecco: il percorso invisibile che porta da un testo a un altro, da una lettura alla sua interpretazione, da un’esperienza alla sua possibile trascrizione, da una prima intuizione alla successiva, che la chiarisce e la consolida. E qui è l’occasionalità che funziona da innesco o detonatore. L’appunto. La glossa. Il diario di lettura. La prefazione. La lettera non spedita. L’articolo. Niente che abbia a che vedere con le opere maggiori, con la loro studiata e artificiale compattezza: qui c’è un uomo con una matita in mano che legge Gide, trascrive citazioni, commenta rapidamente, prova a fermare l’impressione prima che scolori e si perda. Un Roland Barthes non ancora trentenne mette in sequenza frasi di Corneille e di Racine, di Rousseau e di Molière, per fissare i parametri della sua dialettica con i classici, per avvalorare la necessità di «lasciarci introdurre alla letteratura classica da alcuni grandi scrittori moderni», e per sfidare la «nube funebre» in cui spesso è avvolta. Un Roland Barthes non ancora quarantenne rilegge Lo straniero di Camus e ragiona sull’ «invecchiamento» del romanzo, sul modo in cui una grande opera matura, segue il suo tempo, «lascia apparire a poco a poco i propri poteri nascosti».
Forse il valore aggiunto di questa campionatura di testi sparsi sta proprio nel tempo che passa fra il primo e l’ultimo, fra l’uno e l’altro, fra la riflessione su Matisse del ’ 55 e quella su Proust del ’ 79, fra una introduzione a un catalogo d’arte del 1972 e un ragionamento su de Gaulle e la letteratura datato 1959. «Inquieto e discontinuo», dice il curatore del volume Filippo D’Angelo, «esposto al rischio del fallimento», Barthes va componendo un affascinante, quasi ininterrotto, benché desultorio e sparso, «diario in pubblico». Il collante fra gli interessi e le occasioni? Il piacere fisico dello scrivere: «Lo sforzo un po’ ingrato del lavoro intellettuale – annota nel 1976 – è riscattato ai miei occhi dal piacere di avere davanti a me ( come se fossero gli strumenti di un artigiano) un bel foglio di carta e una buona penna. Mentre rifletto a quello che devo scrivere ( come sto facendo in questo stesso momento), sento la mia mano agire, inclinarsi, scorrere, sollevarsi, cancellare, trasgredire le righe, ingrandire lo spazio sino ai margini». Così, sostiene, si costruisce lo spazio di un’arte, dell’arte: e il corpo «gode a tracciare, a incidere ritmicamente una superficie vergine». Nel saggio del 1951 sullo storico francese del diciannovesimo secolo Jules Michelet, parla di «densità irriducibile del corpo umano»; e assecondando questa per lui così magnetica «mitologia della carne», si potrebbe – trattando questi testi sparsi di Barthes da documenti storici, quali sono – arrivare a sentirli come «sostanze a cui si attacca una rimanenza di vita». «Sono una totalità, conservano un mistero; sono unici, speciali» : il calendario dei giorni vissuti, il pensiero che in essi è maturato ed è stato trascritto, la mano dell’autore che agisce, si muove, la fronte, le labbra, gli occhi che si staccano dal foglio per fissare il vuoto in cerca di una parola esatta. Sì, sarà pure morto l’autore – in senso concreto e in senso metaforico, come vuole il proverbiale saggio del ’68 – ma qui la sua «figura fantasmagorica» sembra così viva e vitale! Va dal barbiere, osserva un gruppo di giovani suonare in pubblico, studia una pubblicità del burro nel métro, cerca ciliegie al mercato di Saint- Germain, osserva la luce della lampada in cucina «sfarfallare, affievolirsi e spegnersi», fa le inalazioni prescritte dal medico, apre faticosamente gli imballaggi dei libri che gli arrivano, guarda un po’ di televisione, tira gli scuri per sospendere la propria immagine, per riposarsi «dal me stesso visto, pensato, richiesto, preteso dagli altri».