Robinson, 5 dicembre 2021
Bataclan, il processo raccontato da Carrère
I1. Il roveto cospirativo n linguaggio poliziesco è così che viene designato il sinistro boschetto sotto il boulevard périphérique (il raccordo anulare che separa la capitale francese dalle banlieues) che era stato il penultimo rifugio di Abdelhamid Abaaoud prima dell’immobile occupato di Saint-Denis dove è stato ucciso dalle forze speciali del Raid. Si parla anche, per i nascondigli dei terroristi, di «appartamenti cospirativi». Questo aggettivo è diventato un private joke fra gli aficionados del processo. Come il bistrot di place Dauphine dove ci si ritrova prima dell’udienza, che siamo in diversi a chiamare il «caffè cospirativo» («Alle 11:30 al caffè cospirativo, d’accordo?»). Queste battute non le fanno solo giornalisti predisposti all’humour nero, ma anche parti civili, ex ostaggi del Bataclan, una piccola banda informale di persone accomunate dal fatto di venire tutti i giorni perché non riescono più a staccarsi dal processo, come se fosse una serie tv. Va detto, però, che da una settimana a questa parte bisogna essere veramente drogati di questo processo per venire tutti i giorni. Siamo entrati nella stagione arida del dibattimento, con una successione di agenti della Dgsi e della Dgse (il controspionaggio interno ed esterno) e della polizia belga, che hanno ovviamente cose interessanti da dire, ma che ascoltiamo, per la loro sicurezza, sotto la copertura dell’anonimato, vale a dire in videoconferenza e con il viso oscurato. Per allietare un po’ la faccenda, lo schermo ogni tanto si rischiara con un PowerPoint. I miei colleghi, sui banchi della stampa, sospirano. Per quelli che conoscono bene il dossier, non c’è nulla di nuovo. Perfino per me non c’è (quasi) nulla di nuovo, perché ho letto due libri che raccontano le stesse storie di spionaggio e controspionaggio ma le raccontano meglio: La cellule (edizioni Les Arènes), un graphic novel di Soren Seelow, l’esperto di terrorismo di Le Monde, e
Les espions de la terreur (edizioni Harper Collins) di Matthieu Suc, un giornalista di Mediapart. Li consiglio entrambi.
2. La gendarmeria di Vesoul
Ho chiesto a Matthieu Suc se in tutte quelle deposizioni avesse sentito qualcosa che non era già nel suo libro, pubblicato nel 2018. «Sì», mi ha risposto, «la testimonianza di Bernard Bajolet, che all’epoca era direttore della Dgse». Bajolet, un sessantenne di quelli che passano inosservati, che potrebbe essere il modello di Jean-Pierre Darroussin nella serie Le Bureau – Sotto copertura, non ama stare sotto i riflettori, da bravo agente segreto qual è. Nonostante questo è venuto di persona, e a volto scoperto. Alla domanda sul suo domicilio risponde: «Diciamo: gendarmeria di Vesoul». Chi ci capisce qualcosa è bravo; noi abbiamo riso, ma il seguito è stato meno esilarante. Quello che racconta, senza giri di parole e senza svicolare, è che i suoi servizi hanno fatto cilecca. Era dall’inizio del 2014 che si sapeva che l’Europa, e in particolare la Francia, correvano il rischio di subire un attentato su larga scala, e molti dei futuri terroristi erano noti: sei o sette, dice con freddezza Bajolet, sui dieci membri del commando. Abbiamo seguito da vicino la carriera di un piccolo jihadista belga, Abdelhamid Abaaoud, diventato famoso per un video dove lo si vede ridere di gusto, al volante di una 4 x 4, mentre trascina nella polvere i cadaveri di una decina di miscredenti, prima di giocare a calcio con una testa mozzata. Quell’exploit gli consentì di salire di grado. Dalla brigata degli immigrati, una banda di allegri sadici franco- belgi che operava dalle parti di Aleppo, passò alla Copex, la cellula dello Stato islamico dedicata alle operazioni di terrorismo all’estero. Fortemente strutturata e gerarchizzata, questa Copex, di cui gli agenti 948SI e 1310SI illustreranno nel dettaglio l’organigramma, era diretta da un certo Oussama Atar – il fratello dello Yassine Atar che è fra gli imputati – ma era Abaaoud che reclutava e addestrava i candidati per le operazioni suicide che si preparavano in Europa. I servizi francesi e di altri Paesi lo sapevano talmente bene che nel gennaio 2015 si misero in quattro, con la polizia federale belga, la Cia e il Mossad, per catturarlo ad Atene, bloccando un intero quartiere. Però non lo catturarono e a partire da quel momento Abaaoud scomparve dai radar, per riapparire solo il 16 novembre 2015, nel roveto cospirativo e poi nell’appartamento cospirativo di Saint-Denis. La Dgse e la Dgsi (non così coordinate come dice Bajolet, secondo Matthieu Suc) decisero che era da qualche parte in Siria e sperarono che prima o poi una bomba finisse per cadergli in testa. Nessuno sospettava che stesse coordinando il ritorno in Europa dei membri del futuro commando, che Salah Abdeslam venne a cercare in macchina, tre a tre, a Vienna o a Budapest. Nessuno prestò attenzione più di tanto alla testimonianza di un jihadista di ritorno dalla Siria, arrestato nell’agosto del 2015, che spiegava molto chiaramente quello che Abaaoud si preparava a fare: «Scegliere un bersaglio facile, un posto dove c’è tanta gente. Un concerto, per esempio. E quello che posso dirvi è che succederà molto presto». Insomma, un fallimento su tutta la linea, che Bajolet riconosce con una triste onestà, che lascia colpiti. Non possiamo dire altrettanto degli investigatori belgi, che non fecero meglio dei francesi ma schivano le domande, si rimpallano le responsabilità («Ah no, questo non era compito mio, i colleghi potranno spiegarvi meglio di me…») e non hanno avuto il coraggio di essere fisicamente presenti al processo. Per ragioni di sicurezza, sostengono i loro capi; peccato che non abbiamo mostrato la stessa timidezza quando si è trattato di farsi vedere alla televisione belga. Risultato: che abbiano preso la decisione loro stessi o su consiglio dei loro avvocati, cinque degli imputati hanno annunciato che non presenzieranno più neanche loro alle udienze. Sarà dunque davanti a una gabbia degli imputati vuota per metà che proseguirà il dibattimento, fino a nuovo ordine.
3. Cinque sedie vuote
È un bel ginepraio, questa storia degli imputati che rifiutano di comparire in aula. È un loro diritto, non li si può costringere, ma oltre a far perdere al processo una parte del suo interesse allunga notevolmente i tempi delle udienze. Loro rifiutano, il tribunale ne prende atto e sospende l’udienza. Gli ingiunge di tornare e sospende l’udienza. Invia un ufficiale giudiziario a informarli di che cosa è successo in loro assenza e sospende l’udienza. E così via. Lo dico con la massima cautela perché c’è la presunzione di innocenza, ma si può senz’altro sostenere, in ogni caso, che i cinque imputati che hanno optato, come a suo tempo Klaus Barbie, per la politica della sedia vuota – Salah Abdeslam, Mohamed Abrini, Sofien Ayari, Osama Krayem e Mohamed Bakkali – sono i pesci più grossi del processo. Si può discutere sul loro grado di implicazione negli attentati del 13 settembre, non sulla loro qualità di terroristi. Nella gabbia degli imputati rimangono quindi soltanto i pesci piccoli, quelli che dal punto di vista penale hanno qualche possibilità di cavarsela non troppo male e che per questo cercano di tenere un profilo basso. E poi ci sono i tre che non sono nella gabbia degli imputati ma davanti a essa, perché sono processati a piede libero, sotto controllo giudiziario. Mi intrigano, questi tre. Li guardo, seduti in fila. Hanno l’aria di cani bastonati, di scolari in punizione. Se uno parla all’altro, sottovoce, il terzo allunga il collo, preoccupato di essere tenuto in disparte. Ridono, a volte. Prendono appunti. Arrivano e vanno via come noi. Un giorno l’udienza è cominciata in ritardo perché per iniziare è necessario che tutti gli imputati siano presenti, mentre mancava Hamza Attou. Tutti hanno aspettato Hamza Attou. Mortificato, ha spiegato che la metro era rimasta bloccata fra due stazioni, non era davvero colpa sua. «Per stavolta va bene», ha detto il presidente del tribunale con quell’aria da preside paterno che lo rende a volte così amabile, «ma per il futuro prenda le dovute precauzioni». Quando lo abbiamo ascoltato, negli interrogatori di personalità, raccontare la sua vita, non ci è venuto da essere cattivi con Hamza Attou. E neanche con Ali Oulkadi e Abdellah Chouaa. Non sono certo dei santi, questi tre, ma sono coinvolti nel processo solo in modo marginale e mi domando come vivono la spaventosa sventura di ritrovarsi al fianco di pericolosi terroristi in questo maxiprocesso che interessa il mondo intero. A che cosa assomigliano le loro vite in questi nove mesi. Dove risiedono, che cosa temono e che cosa sperano, che cosa dicono ai loro familiari. Me lo domando, sì, e se avessi il coraggio di farlo mi piacerebbe domandarlo a loro.