Il Messaggero, 5 dicembre 2021
Intervista a Tibor Fischer
«Il successo? Se va bene, vuol dire che il tuo lavoro è apprezzato da tanti idioti. Se va male, tanti idioti fingono di amare il tuo lavoro». Il protagonista di Come governare il mondo, Baxter Stone, è un regista di documentari che cerca di barcamenarsi tra pericolose trasferte all’estero, incendi rovinosi e manager ottusi, in attesa di una svolta che non sembra arrivare mai. «Ogni uomo è lo zimbello di casa sua», commenta quando la moglie lo scorge al pub con una spogliarellista ucraina «conciata come una mignotta babilonese», e si avvicina solo per ricordargli di prendere l’anticalcare prima di tornare a casa. Stone è un po’ l’alter ego del suo autore, Tibor Fischer, l’autore britannico più controcorrente e corrosivo in circolazione, che oggi alla fiera della piccola e media editoria Più Libri più liberi (Nuvola dell’Eur, ore 16,45, sala Vega) presenterà con Giorgio Biferali Come governare il mondo: un romanzo vorticoso e pieno di humour, con protagonisti ineffabili come il cameraman vegano Semtex, che ama pasticciare i menu dei ristoranti con scritte del tipo «rana pescatrice uccisa due volte in letto di agonie». Autore di libri geniali come La gang del pensiero (1996), in cui i rapinatori usano la filosofia per farla franca, Fischer è figlio di ungheresi in fuga dalla Rivoluzione del 1956.
Mister Fischer, la sua stella è cominciata a brillare nel 1993, quando la rivista Granta la inserì nella lista dei giovani scrittori migliori della sua generazione.
«Ho avuto fortuna: molti autori hanno difficoltà a ingranare, e io avevo pubblicato questo romanzo su una squadra di basket nell’Ungheria degli anni Cinquanta (Sotto il culo della rana, ndr), quindi non un facile candidato a diventare besteseller».
E allora cosa ha fatto?
«Ho cercato un agente e non l’ho trovato, la cosa mi ha fatto alterare e allora ho fatto la cosa meno intelligente da fare, l’ho spedito io stesso a tutti gli editori. A quel tempo bisognava mandare i manoscritti su carta, una cosa costosissima. Dopo tanti rifiuti ritentai per la cinquantaseiesima volta, con un piccolo editore scozzese che pubblicava anche qualche romanzo di avanguardia (Polygon Books). Quando decise di pubblicarlo, la mia vita cambiò, è stato come vincere alla lotteria. Sono finito tra i candidati al Booker Prize».
Quanto le somiglia il protagonista di Come governare il mondo?
«C’è una certa sovrapposizione tra me e lui perché anch’io ho lavorato molti anni fa per la televisione, con dei documentari sui Paesi dell’Est europeo. Ma parte del libro è su come è cambiato il mondo per chi lavora in questo settore. Oggi è più facile distribuire i propri documentari, ma è diventato molto più difficile fare soldi, a causa di Internet».
Questo vale per qualunque genere, no?
«Sì, ad eccezione dei film di supereroi».
Mai pensato a serie tv?
«Ho scritto la sceneggiatura di una serie, su un uomo che scopre la formula dell’altruismo, dà via tutto ciò che possiede e alla fine si uccide. Credo sia ferma in qualche cassetto di Hollywood».
È vero che odia le interviste?
«Cerco di evitarle, ma alla fine cedo».
Lei vende l’umorismo a uno dei paesi che l’hanno inventato.
«Non è esattamente così, la tradizione comica è presente ovunque, a partire da Molière. E arriva da molto lontano: Aristofane è ancora attuale: non c’è niente nel nostro mondo che non si possa trovare nelle sue opere. Eppure, la commedia viene presa poco sul serio».
Lei si è laureato a Cambridge, ha studiato francese e latino.
«Ho completamente dimenticato il latino, ma amo molto le opere di Apuleio. E nei miei libri Ovidio resta sempre sullo sfondo».
Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita, è la celebre frase di Samuel Johnson. Anche lei, come Baxter Stone, è stanco di Londra?
«Sì e in parte perché – mi spiace ammetterlo – è una città che trovi piacevole da giovane, finché puoi dormire sul divano di qualche amico, e prendere quello che Londra ti può dare. Altrimenti devi essere molto ricco. E io non sono né giovane né ricco».
Per questo ora sta per lunghi periodi a Budapest?
«Sì: c’è ottima musica, bellissimi musei, puoi spostarti agevolmente da un posto all’altro in poco tempo. Ho molti cugini che mi invitano a pranzo. E poi ho un lavoro. Tengo dei corsi di scrittura (presso il centro per la letteratura del Mathias Corvinus Collegium, ndr)».
Ha messo la testa a posto?
«È il primo vero lavoro che abbia avuto in vita mia. Sono sempre stato un freelance, credo di avere scritto almeno un paio di volte su ogni giornale importante del Regno Unito, per il
Telegraph soprattutto, e lo faccio ancora, ma anche per il Guardian, l’Independent...»
Ha scritto anche sull’Ungheria, ma quando ha preso le difese del premier Viktor Orbán è successo un putiferio.
«Ho solo cercato di raccontare le cose come stanno. Descrivono spesso l’Ungheria come una dittatura, ma non è così. C’è un governo democraticamente eletto, di destra, con una forte base religiosa – e io sostengo che usare Dio in politica sia un grave errore – ma è una cosa che succede in molti Paesi».
Il prossimo libro?
«Ho fatto molta ricerca sulle criptovalute: sarà il tema del mio prossimo lavoro».