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 2021  dicembre 05 Domenica calendario

Intervista a Ben Okri - su "Preghiera per i vivi" (La nave di Teseo)

Quella di Ben Okri è una delle voci più potenti della letteratura afroeuropea. Britannico di origine nigeriana, ha vinto il Booker Prize con La via della fame trent’anni fa: ora torna nelle librerie italiane con Preghiera per i vivi, raccolta di 23 racconti, in bilico tra realtà e illusione, che spaziano da Londra a Bisanzio, dalle Ande al Mediterraneo.

Come si colloca questa raccolta nella sua produzione, che oscilla fra narrativa e poesia?

«Il racconto breve è stato una parte importante della mia carriera, un profondo apprendistato. È una forma difficile: ed è una delle forme migliori per analizzare cosa succede nel nostro tempo e cosa succede sotto la superficie, perché è eccellente nel catturare il sopra e il sotto dell’esperienza. È una forma che svolge un doppio lavoro, perché è molto simbolica».

Infatti nei suoi lavori confina con la poesia, fino ad arrivare in questa raccolta a una fusione con l’haiku, il breve componimento poetico giapponese.

«Si chiama stoku (short story + haiku): è una forma che ho inventato nel 2012, dopo sette anni di sperimentazione».

Come la definisce?

«È una forma che cattura lo scontro di realtà, sfiora il volto della realtà come l’ala di una farfalla: ha la delicatezza dell’haiku ma ha anche un piccolo elemento narrativo, che è importante per combinare gli elementi della realtà e del sogno».

Il suo tema centrale è tentare di definire la realtà ai suoi diversi livelli.

«La realtà ha così tante dimensioni. Da un punto di vista filosofico la realtà è inconoscibile, la percepiamo attraverso i sensi ma è una percezione inaccurata, perché i sensi sono inefficienti».

Dunque di cosa abbiamo bisogno per percepirne i diversi livelli?

«Abbiamo bisogno di qualcosa di più dei nostri corpi. Ma qui entriamo in una delicata questione metafisica».

Infatti c’è una dimensione spirituale molto importante nei suoi lavori, che deriva anche dalla tradizione africana.

«Non viene solo dal mio retroterra africano, ma anche dalla mia indagine personale: fin da bambino, da quando ho visto gente venire uccisa, non ho mai smesso di chiedermi qual è il senso della vita. E quella domanda mi ha condotto alla filosofia, da Platone e Aristotele fino ai tempi moderni. Questo per me è sempre stato un filo conduttore importante: la dimensione africana ha semplicemente confermato l’intuizione che nella realtà c’è di più di quello che vediamo. La visione del mondo africana afferma che ci sono molte realtà differenti: una realtà non gerarchica, ma multidimensionale».

È affascinante questa miscela fra tradizione filosofica occidentale e cultura tradizionale africana. Non si contraddicono?

«La tradizione filosofica occidentale non è univoca, ha tanti elementi di contraddizione. E tutte quelle tradizioni sono presenti anche nella visone del mondo africana: se guardi in profondità, in ogni tradizione del mondo troverai tutti i diversi livelli che trovi nella tradizione occidentale, perché siamo esseri umani e ci siamo sempre posti più o meno le stesse domande».

Lei rifiuta l’etichetta di «realismo magico», ma ci sono echi di Borges e Rushdie nei suoi lavori. Quali sono le sue fonti di ispirazione?

«Uno scrittore non è nella posizione di dire chi sono i suoi antenati letterari, perché magari il suo lavoro ne rivela altri. Ma se mi chiede chi ha avuto l’impatto più profondo su di me, devo andare indietro a Omero: perché per me lui era molto africano».

In che senso?

«Nel senso della fede nella presenza degli antenati, della fede negli dei. E quando la gente muore fanno giochi funebri, i morti discendono nell’oltretomba, c’è il senso che i morti non muoiono davvero perché restano accessibili, c’è il senso della presenza degli dei, anche se ci sono dubbi sulla loro bontà o onnipotenza. È tutto molto simile alla tradizione africana: quando ho letto per la prima volta Omero mi sono sentito a casa, ho sentito di comprendere quell’universo».

Lei riesce a vedere come la tradizione occidentale, nei suoi fondamenti, non sia così distante dalle basi della cultura africana.

«Le nostre origini sono ancestrali, ritualistiche, metafisiche, spirituali. Se vai indietro a Beowulf, nella letteratura inglese, trovi qualcosa che risuona con la tradizione africana: la saggezza della terra, le molte voci del mondo, l’incertezza del nostro posto nell’universo, l’instabilità del mondo dei vivi e dei morti. La tradizione occidentale ha codificato tutto ciò, è andata avanti, è diventata molto più strutturata , più realistica, ma questi margini meravigliosi sono ciò che amiamo di più. È ciò che amiamo in Shakespeare, quando queste cose vengono fuori, e così anche in Dante».

Lei quindi prova a trovare le sue fonti in un sostrato comune ancestrale.

«È ciò che risuona in me, è ciò da cui sono affascinato. Abbiamo fatto un grande danno alla nostra percezione del mondo attraverso un eccesso di razionalismo, abbiamo fatto un grande danno alle possibilità della narrazione, nel momento in cui abbiamo ridotto il mondo solo a ciò che possiamo vedere e toccare: abbiamo perso il senso rituale della vita, laddove non puoi definirla completamente. È questo senso di umiltà che porta alla poesia: dunque per me il modo migliore di guardare al mondo è attraverso uno sguardo allo stesso tempo contemporaneo e ancestrale».

C’è infatti anche molta attualità in questi racconti, dal terrorismo alle migrazioni.

«Sono in primo luogo uno scrittore del nostro tempo. Fin dai miei primi lavori guardavo alla realtà della Nigeria contemporanea, ma con il tempo ho capito che quella lente era troppo ristretta, non vedevo tutta la realtà. Sono uno scrittore del mondo contemporaneo ma non attraverso una lente contemporanea, perché è troppo ristretta per capire ciò che ci succede, per vedere ciò che attraversiamo. Ho passato molti anni nel tentativo di aprire la lente del mio linguaggio: è stata una delle battaglie più difficili della mia vita letteraria, creare un linguaggio al di là del bellissimo ma ristretto realismo».

C’è anche una forte dimensione politica nella sua scrittura. Qual è il ruolo della letteratura oggi?

«La letteratura ha un ruolo politico che lo voglia o no, perché riflette la realtà, le idee del nostro tempo e le conseguenze di quelle idee. Descrive l’atmosfera che respiriamo, la tendenza dei nostri pensieri, rivela le illusioni della percezione. La vera dimensione politica della letteratura ha a che fare con il vedere più chiaramente cosa ci succede: nulla è più politico di ciò, ben più che prendere posizione, che non è politica, è partigianeria. Politica è vedere chiaramente così da prendere decisioni informate, raggiungere conclusioni migliori. Perciò nella storia intitolata Zattera, in cui i migranti sono su una barca durante la traversata, il mio compito era illuminare un momento: e dipende da te se ti piace o no ciò che vedi. Ed è più difficile illuminare la realtà che avere un’opinione: la letteratura non è questione di avere un’opinione, ma di rivelare. La letteratura ha un grande vantaggio sulla storia, perché non è costretta dai fatti: la letteratura consente infiltrazioni non intenzionali della verità».