La Stampa, 5 dicembre 2021
Quel bipolare di Raffaello
Intorno ai trent’anni Raffaello ha un’esigenza che forse ha sempre sentito, ma che Vasari colloca in questo momento della sua vita e che descrive con grande precisione: «Era Rafaello persona molto amorosa et affezzionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro; la qual cosa fu cagione che, continuando i diletti carnali, era con rispetto da ’suoi grandissimi amici osservato per essere egli persona molto sicura, forse più che non conveniva, rispettato e compiaciuto. Onde facendogli Agostin Chigi, amico suo caro, allora ricchissimo mercante senese, dipignere nel palazzo suo la prima loggia, egli non poteva molto attendere a lavorare per l’amore che e ’portava a una sua donna; per il che Agostino si disperava di sorte» – insomma Raffaello voleva solo fare l’amore e non dipingeva – «che per via d’altri e da sé e di mezi ancora operò sì, che appena ottenne che questa sua donna venne a stare con esso in casa continuamente in quella parte dove Rafaello lavorava: il che fu cagione che il lavoro venisse a fine». Raffaello, ci racconta Vasari, veniva preso da un raptus erotico e aveva bisogno di avere vicino la donna per essere ispirato. È qualcosa che appare intorno al 1514-15, quando Raffaello lavora per Agostino Chigi. E chi è questa donna? La meravigliosa ragazza velata. Se guardiamo bene La velata, vediamo quanto palpita il suo corpo sotto la veste, un’immagine sensuale, come una Monica Bellucci dipinta da Raffaello. E chi è quella donna velata? La celebre Fornarina, la quale gli accende gli istinti, i desideri, a tal punto che, se non riesce ad appagarsi, non può dipingere. Questo è l’inizio della fine di Raffaello.
Il Ritratto di giovane uomo è uno straordinario dipinto che nessuno conosce in quanto fu rubato dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale a Cracovia, dove era custodito accanto alla Dama con l’ermellino, e non è mai più stato ritrovato. Abbiamo solo una fotografia. È sostanzialmente lo specchio di Raffaello in quegli anni, nel 1516, la stessa aria da dandy, da uomo appassionato, caldo; un ritratto così meraviglioso che è difficile immaginare qualcosa di più potente.
Resta invece un mistero la morte di Raffaello. O si vuole che resti tale. In mancanza di documenti dobbiamo risalire alla Vita del Vasari. Il racconto inizia in modo molto rassicurante, e tale da sembrar garantire un modello di vita in tutto coerente con l’opera, differenziando il grande artista dall’immagine già stereotipata (e ben prima del genio sregolato e maledetto di Caravaggio) dell’artista originale e irregolare, ed escludendo vizi, peccati ed errori, come nell’arte, così nella vita. Sembra una cifra che vale, con piccoli e ininfluenti nei (non certo definibili come vizi), per l’intera esistenza di Raffaello. Poi, nell’esaltato racconto della multiforme produzione artistica di Raffaello, Vasari si lascia scappare il primo indizio (lo «scuro dei vizi»), che porterà alla tragica conclusione. Così da lui apprendiamo che, diversamente dal compiacente e intrigante cardinal Bibbiena, il grande amico Agostino Chigi è consapevole complice dei vizi di Raffaello, al punto da aiutarlo, come un pusher del sesso, per consentirgli di lavorare meglio. Vasari ci dà elementi indiziari molto rarefatti, per intendere caratteri e passioni di Raffaello, ma sufficienti per capirne la desolante conclusione. Essa è tanto improvvisa quanto eloquente, e non lascia dubbi di interpretazione: «Il quale Raffaello, attendendo in tanto a ’suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da ’medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro».
Due elementi utili sfuggono al resoconto compunto e reticente di Vasari: «Attendendo in tanto ai suoi amori così di nascosto» e «una volta fra l’altre disordinò più del solito". Ecco: quando erano iniziati questi stravizi, questi disordini amorosi, "fuor di modo»? La ritrosia (o l’autocensura) di Vasari si è trasmessa, come una parola d’ordine, a tutta la critica, anche in tempi spregiudicati e irrispettosi dei miti come i nostri.
La morte di Raffaello resta avvolta nel mistero, e pochi hanno osato collegarla a malattie veneree, cui perfino Vasari sembra fare oscuro (e doloroso) riferimento. Ma, a questo punto, ci aiutano le opere. Difficile, infatti, riconoscere e ritrovare quel giovinetto gracile, pallido, spirituale, quale si presenta Raffaello nell’Autoritratto degli Uffizi, non giovanilissimo se accogliamo la cronologia, tra il 1506 e il 1508, proposta nel catalogo della mostra delle Scuderie del Quirinale, quindi a circa venticinque anni, nell’uomo ancor giovane del misterioso capolavoro, ora al Louvre, il Doppio ritratto in cui si rappresenta, per l’ultima volta (dopo la comparsata alla Hitchcock nella Scuola di Atene), Raffaello, insieme a un amico, in intima confidenza. (...)
Dunque Vasari, pur sommamente reticente, sembra volerci offrire la chiave di lettura di una vita peccaminosa e alimentare, con infinita prudenza, il sospetto che il virtuoso Raffaello avesse una doppia identità o una natura misteriosa, una sorta di bipolarismo. Fino a farne un simile di Caravaggio e di Pasolini, con una morte indecorosa.