La Stampa, 5 dicembre 2021
I dannati di Lesbo
«In una città qualunque, di un Paese qualunque, un automobilista è fermo al semaforo, in attesa del verde, quando si accorge di perdere la vista. Non si tratta di un caso isolato: è l’inizio di un’epidemia che colpisce progressivamente tutta la città e l’intero Paese».
Così inizia Cecità di Saramago. In una città qualunque, di un Paese qualunque. Potrebbe, per esempio, essere Lesbo.
Mohammed, sua moglie e le due figlie piccole sono scappati nel 2017 da Kabul, in fuga dai taleban.
Mohammed lavorava come autista per le organizzazioni internazionali di base in Afghanistan, tanto bastava a renderlo inviso agli studenti di Dio. La complessità della storia della sua famiglia sintetizza la storia recente del Paese. I fratelli di sua moglie hanno fatto scelte opposte, il maggiore è diventato un soldato dell’esercito afgano, fedele al governo sostenuto dalla comunità internazionale e addestrato dalla Nato e dagli statunitensi, il più piccolo, invece, si è unito ai taleban, ha combattuto a Ghazni, ed è diventato minaccioso persino con la sua famiglia. Un giorno, quattro anni fa, ha bussato con un gruppo di taleban alla porta di casa di sua sorella, nel quartiere nordoccidentale di Khair Khana, a Kabul e ha detto a Mohammed che era arrivata l’ora di lasciare il suo lavoro per "gli usupartori" e unirsi al gruppo. «È ancora un consiglio» gli disse, andando via.
Mohammed ha continuato a lavorare per una settimana senza dormire, guardandosi le spalle a ogni angolo di strada, finché una sera è tornato a casa e ha trovato una lettera: «Hai due giorni, e poi ti tratteremo come gli altri, verrai processato in nome della legge coranica». Il tempo degli avvertimenti era scaduto. Mohammed ha piegato il foglio, l’ha messo in tasca come prova della sua persecuzione, ha cercato i pochi oggetti da vendere prima di abbandonare tutto, ha preparato una valigia, più piccola possibile per non dare nell’occhio, ed è scappato con la sua famiglia. Hanno attraversato l’Iran, la Turchia, sono arrivati a Izmir e da lì, come migliaia di altre persone hanno provato ad imbarcarsi per la Grecia, diretti in Nord Europa. Hanno tentato invano tre volte, prima che l’ultimo gommone li trasportasse contro gli scogli di Lesbo.
Mohammed, la moglie e i figli erano quattro delle dodicimila persone che vivevano nelle campagne che circondavano l’hotspot di Moria «in una piccola tenda sulle colline, senza elettricità, senza acqua, sotto la pioggia o il sole torrido. Per mesi non abbiamo lavato le bambine, sulle colline non c’erano bagni. L’acqua delle taniche era gelata», ricordano. A Moria c’era un bagno ogni 150 persone. Una doccia ogni trecento. Numeri drammatici e sempre teorici, perché i pochi servizi erano spesso inutilizzabili, nessuno spurgava le latrine e i cespugli diventavano l’unica alternativa.
Mohammed ha provato due volte a chiedere asilo. E per due volte la sua domanda è stata rigettata. Ora la sua famiglia è in attesa della risposta al ricorso, bloccata sull’isola dalle procedure dell’accordo stretto tra l’Europa e la Turchia nel 2016 per ridurre il flusso di persone in arrivo dalle coste turche a quelle greche e dirette sulla rotta balcanica. In cambio della protezione dei confini, del pattugliamento di quel tratto di mar Egeo e dei campi per persone migranti, l’Europa ha pagato da allora alla Turchia 6 miliardi di euro.
La storia della famiglia di Mohammed è la storia di molti: risposte che non arrivano, figlie senza scuola per anni, vite miserabili e sospese dalla lentezza dei processi amministrativi, dalle mancate risposte alle richieste d’asilo che hanno fatto sì che le cinque isole dell’Egeo esplodessero, che diventassero campi profughi a cielo aperto, circondati da topi e spazzatura, tanto che sul muro antistante al campo, qualcuno aveva scritto "Benvenuti in prigione".
Oggi quella scritta non c’è più, non c’è più nemmeno l’hotspot di Moria. Distrutto da un incendio doloso la notte dell’otto settembre del 2020, quando un gruppo di giovani afgani, esasperati dalle condizioni di vita disumanizzanti, ha dato fuoco ad un container. Di quel gesto disperato, oggi, resta la collina desolata di rottami e ruggine e un gruppo di giovani condannati a dieci anni e detenuti ad Atene.
Dopo il rogo Mohammed e la famiglia hanno sperato che fosse arrivato il momento di essere ricollocati in un altro Paese europeo. Il mondo si sarebbe finalmente accorto di loro, qualcuno avrebbe trovato una soluzione per garantire una vita meno degradante.
«Mai più Moria» gridavano tutti: le istituzioni europee, quelle greche, le Ong e, naturalmente, le persone migranti.
«Mai più Moria» era un coro unanime, ma ognuno aveva una soluzione differente per il futuro dei richiedenti asilo come Mohammed. La soluzione che ha prevalso, alla fine, è stata la linea dei "campi chiusi", del governo conservatore di Mitsotakis. Al potere dal 2019, aveva già rafforzato la sua posizione deportando più migranti, costruendo una recinzione di 40 chilometri nella regione di Evros, al confine terrestre con la Turchia, accelerando le espulsione, regolamentando rigorosamente le attività di Ong e gruppi di volontariato e chiedendo supporto all’Europa per risolvere il sovraffollamento delle isole.
Anche la commissaria per gli affari interni Ylva Johansson, dopo il rogo, aveva promesso che «non ci sarebbero stati più Moria», la risposta pratica al coro di "mai più", è stato lo stanziamento di 276 milioni di euro per la costruzione di cinque nuovi campi sulle isole dell’Egeo, campi che nascono però sul terreno scivoloso dell’ambiguità europea.
Durante una visita a Lesbo, Ylva Johansson aveva affermato con enfasi che le nuove strutture non sarebbero state chiuse, però le intenzioni greche erano chiare e di linea opposta: il documento di presentazione del Ministero della migrazione li descriveva come «campi chiusi e controllati», ribadendo la parola "chiuso" per 18 volte.
La Commissione aveva insistito sulle garanzie di libertà di movimento: non poteva passare il messaggio che l’Ue finanziasse prigioni o recinzioni ma, nati sulla carta per fornire standard di alloggio più elevati per i richiedenti asilo, i centri nella pratica sono luoghi circondati da una doppia recinzione di filo spinato, con un ingresso dotato di tornelli, cancelli magnetici e macchine a raggi x dotate di un algoritmo di analisi del movimento che monitorano gli ingressi e le uscite, un sistema a cui nel documento programmatico che definisce le priorità del governo sulla gestione dei richiedenti asilo viene dato il nome di "Centaur".
Di fronte ai malumori dei vertici europei la Grecia ha garantito che i campi sarebbero rimasti aperti dalle 8 alle 20, eppure oggi, nelle guardianie all’entrata, i soldati che pattugliano i campi controllano documenti, impronte digitali e la validità dei permessi d’uscita, i richiedenti asilo devono dimostrare di avere una ragione documentata per uscire, un appuntamento con un medico, un legale, un’organizzazione umanitaria.
Il primo campo del nuovo corso della gestione migratoria europea è stato inaugurato a Samo a settembre. Il giorno dell’apertura l’intransigente ministro greco per la migrazione e l’asilo, Notis Mitarakis, ha dichiarato: «La Grecia sta adempiendo ai suoi obblighi e proteggendo i confini europei e i nostri ideali comuni». L’ideale comune sono 14.250 metri quadrati di container, non visibili dal capoluogo di Vathy, completamente isolati dalla comunità dell’isola, che da anni protestano contro la presenza dei migranti.
Il campo della cecità.
«Non ci sono dubbi sulle intenzioni di questo luogo enorme in mezzo al nulla, isolato dal resto della società» ha affermato Patrick Wieland, il coordinatore sul campo di Samo per Medici senza frontiere «tutto è progettato per il confinamento». Che è come dire: miglioriamo le condizioni di vita ma non pensiate che sia il paradiso. Il governo greco non sembra volere che chi ha intenzione di raggiungere l’Europa pensi che le nuove strutture siano troppo accoglienti, la strategia era e resta quella della deterrenza.
Anche per gli afgani come Mohammed che sono la maggioranza dei richiedenti asilo presenti sulle isole, che lo sono da anni, da ben prima che Kabul tornasse nelle mani dei taleban.
I nuovi campi incarnano la linea che ormai da anni l’Unione Europea tiene e rafforza in materia di migrazione: esternalizzare il controllo delle frontiere, stringendo accordi economici con Paesi terzi per garantire che le partenze siano schermate, con una certa tolleranza verso i respingimenti.
È uno schema che si ripete identico in Grecia, nel Mediterraneo Centrale, fino agli ultimi eventi al confine tra la Polonia e la Bielorussia.
Oggi le persone migranti, in Grecia, vivono segregate in luoghi remoti, circondati da misure di sicurezza aggressive, con serviti forniti internamente per essere il più possibile invisibili alle comunità locali.
A novembre il ministero greco per la migrazione ha ospitato ad Atene il secondo Congresso Mondiale sulla sicurezza delle frontiere, una piattaforma globale sulla gestione del controllo dei confini, segno di quali siano le priorità quando si parla di gestione del fenomeno migratorio.
Non già protezione dei diritti umani, ma pattugliamento dei confini e controllo ad alta tecnologia dei richiedenti asilo detenuti nei campi.
«Non sappiamo quale sia il nostro destino, né perché veniamo trattati come criminali pur non avendo commesso alcun reato» dice Mohammed.
Anche Soraya è scappata dall’Afghanistan. Oggi ha 19 anni, ne aveva 15, quattro anni fa quando è arrivata sulle coste di Lesbo con la sua famiglia: padre, madre e quattro sorelle. In fuga da Ghazni, dai taleban che stavano uccidendo un giovane dopo l’altro, decimando famiglie.
«Mio padre voleva per noi un futuro migliore - dice Soraya - ma non avrebbe mai pensato che arrivare in Europa avrebbe significato dormire per un anno e mezzo in mezzo a un campo, senza bagni, né medicine, né elettricità. E poi essere trattati come prigionieri».
È metà pomeriggio quando Soraya e sua madre Leila guardano il mare. Sono fuori dal nuovo campo di Mavrovouni per le poche ore settimanali che sono loro concesse dalle nuove procedure.
Sono state sedute nel parco di Mytilene, poi hanno passeggiato lungo le rive dell’Egeo.
Soraya vorrebbe diventare una scienziata, studiare «come gli altri» dice, ripete questa formula molte volte "come gli altri". Però, continua, «non siamo come gli altri, i greci non vogliono che ci facciamo vedere in giro, non vogliono che parliamo delle condizioni di vita nei nuovi campi. Un bagno coperto non fa di una vita un’esistenza dignitosa, dietro quel filo spinato ci sentiamo trattati come animali che nessuno deve vedere».
La Grecia diventa progetto pilota del nuovo corso dell’Europa, quello dell’invisibilità.
La soglia del discorso pubblico sul fenomeno migratorio si sposta ancora, dagli hotspot ai campi chiusi, il filo rosso è: se le persone migranti non si vedono, non esistono. Rendendo migliaia di persone invisibili e rendendo noi, i cittadini europei, come i ciechi di Saramago, «ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono».