Corriere della Sera, 5 dicembre 2021
Che cosa ci dice quel palco senza uomini
Tutto giusto, tutto indispensabile, tutto più che urgente. Tutto pur di fermare in qualsiasi modo un’emergenza che ha già fatto 109 vittime soltanto da inizio anno e che lascia la coda dolorosa di duemila orfani di madre, e con un padre troppe volte nei panni dell’omicida.
Dove la paura o la vergogna, unite alla certezza che non ci sarà giustizia e comunque non presto e non gratis, spingono pochissime donne, poco più di una su dieci, a denunciare una violenza sessuale o fisica subita. Benvenuto, dunque, qualsiasi innalzamento delle difese e delle tutele, come quello presentato venerdì 3 dicembre, nella solenne cornice di Palazzo Chigi, da una task force altrettanto solenne, testimonianza di una volontà di impegno visibile, misurabile, persino agguerrito. Stavolta non ci fermeremo, sembravano dire le rappresentanti di questo governo, per la prima volta riunite insieme: sette su otto (Cristina Messa, Università e Ricerca, unica assente giustificata); sul totale di 23 ministri, quasi una ogni tre, molto meglio della media nazionale tra i dirigenti o i vertici di aziende o di giornali o di capi di qualcosa.
La scena voleva essere simbolica: sette ministre, a semicerchio su un palco, per annunciare un pacchetto di nuove misure contro la violenza sulle donne. E nessun uomo di mezzo, giusto il premier Mario Draghi, ma giù in platea, sia pure in prima fila, come a benedire l’iniziativa senza volerla intralciare. E forse il problema sta anche lì, nella ostentata, per quanto sicuramente dettata da fraintesa cortesia, assenza di maschi quando si tratta di cose da femmine. Soltanto che non si tratta di cose da femmine. Il vasto campo di molestie, persecuzioni, botte, umiliazioni, uccisioni che hanno per bersaglio corpo e anima delle donne non sono un problema di genere ma di civiltà, e quindi di tutti.
L’uomo è il cacciatore senza licenza, il picchiatore, il prevaricatore, l’assassino, il bullo che umilia la debole fino ad annichilirla. Adesso, con le norme rafforzate contro questo abuso di forza e di potere, dal braccialetto elettronico per i soggetti più pericolosi alla possibilità di procedere d’ufficio in caso di violenze domestiche senza aspettare la denuncia, sarà un po’ più difficile farla sempre franca. Ma sperare che basti più severità ad arginare un mare di violenza che a ondate straripa rischia di alimentare illusioni che non avranno le conseguenze attese.
Nascere e crescere donna in Italia non è un affare che ti semplifica la vita, anche in assenza di incontri malvagi. Secondo ogni statistica, sono le donne che stanno pagando il conto più salato alla pandemia, sia in termini di perdita di posti di lavoro sia per i sacrifici indispensabili per seguire i figli più piccoli nella lunga trincea della didattica a distanza, e le due cose sono spesso collegate, con la prima che è conseguenza della seconda. La lista delle disuguaglianze rispetto ai maschi si può applicare praticamente ovunque, dal gap salariale all’ambito familiare, dove i pesi di responsabilità e fatica sono inegualmente ripartiti, fino all’emarginazione di fatto nella politica, dove neanche funziona il consolatorio correttivo delle quote rosa, che sarà anche meglio di niente ma è indice scoraggiante di una subalternità tanto acclarata quanto ingiustificabile. Alle ultime Amministrative, appena 553 candidate sindaco su 2.855 posti in lizza, meno di un quinto del totale; nelle otto città chiave, nessuna è arrivata al ballottaggio.
Ma è come se la diversità smaccata di considerazione e di trattamento non fossero sufficienti alla minoranza dominante, perché questo è la popolazione maschile, per risparmiare il sovrapprezzo di odio e soprusi al genere femminile. La mappa dell’intolleranza, ideata da Vox-Osservatorio italiano sui diritti, monitora i livelli di disprezzo sui principali social media, da Facebook a Twitter. Nel 2020, il primo posto era largamente detenuto proprio dalle donne (49,91 %), seguite a considerevole distanza da ebrei (18,45%), migranti (14,40%), islamici (12,01%), omosessuali (3,28%) e disabili (1,95%). Eppure, ogni volta che si affronta questa sconcertante evidenza, questo abisso di disparità tra i sessi malamente nascosto sotto un enorme tappeto di ipocrisia, ogni volta che una donna finisce al centro di un caso di abuso, quale che sia, sembra che solo le donne siano titolate a parlarne, e gli uomini, vuoi per pudore vuoi per indifferenza oppure per un vago senso di colpa collettivo, si sottraggano dalla scena, più o meno volentieri, quasi l’argomento non sia di loro pertinenza o li riguardi appena marginalmente.
Se da qualche parte bisogna ricominciare, e i numeri delle violenze, fermandoci a quelli, dicono che in uno Stato civile bisogna assolutamente ricominciare, un primissimo simbolico passo potrebbe essere quello di condividere, femmine e maschi, la sfida per lo stesso obiettivo: un’Italia meno brutale e più giusta con ogni bambina, ogni ragazza, ogni adulta, ogni anziana che abiti qui. E allora su quel palco a Palazzo Chigi forse non sarebbe stato sbagliato che, invece delle sole ministre, ci salisse l’intero governo, a dimostrare che la questione non è né un affare riservato a una parte di Paese e neppure soltanto un necessario inasprimento delle misure contro gli uomini che odiano le donne. Sul tavolo, ci sono i sacrosanti diritti, compreso poter vivere senza essere massacrate di botte o molestate sfacciatamente, della maggioranza più minoritaria del mondo.