Corriere della Sera, 5 dicembre 2021
Le lettere tra Eugenio Montale e Sergio Solmi
Erano poco più che due ragazzi, Eugenio Montale e Sergio Solmi, quando una sera del 1917, grazie a un amico comune, si conobbero in una modesta latteria di Parma. Ventun anni il primo, non ancora diciottenne il secondo, ambedue allievi ufficiali di fanteria, ambedue in attesa di essere richiamati al fronte, ambedue poeti in erba, di lì a poco avrebbero iniziato un’amicizia tra le più durature e feconde del Novecento letterario. Amicizia, colma di «intesa e complicità istintive», testimoniata da un imponente scambio epistolare che si estende fino al 7 luglio 1980 e che ora viene pubblicato (Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai, Quodlibet) per le intelligenti cure di Francesca D’Alessandro, nel quarantesimo della morte dei due poeti (Montale morì il 12 settembre 1981 a Milano, Solmi poche settimane dopo, il 7 ottobre, sempre a Milano).
Sono 338 le lettere conservate: le 237 montaliane e 61 di quelle firmate da Solmi si trovano alla Fondazione Sapegno di Morgex; a queste ultime vanno aggiunte le 38 (più una cartolina) che lo stesso Solmi donò a Maria Corti e che si conservano nel Centro Manoscritti di Pavia.
Lasciata Parma, Eugenio e Sergio cominceranno a scriversi a partire dal 28 febbraio 1918, dalle rispettive zone di guerra, per Montale il fronte trentino, per Solmi il Trevigiano sul Piave, dando avvio a un intenso andirivieni di composizioni poetiche prima di ritrovarsi a Torino nell’immediata conclusione del conflitto e in attesa del congedo definitivo, pur sempre lamentando reciprocamente «questa porca vitaccia in grigio-verde». Rientrato a Genova, dove ripiomba nella quotidianità asfittica privo di un baricentro lavorativo, «non senza un po’ di rossore» Montale invia al carissimo amico la sua Suonatina al pianoforte. Il tentativo, scrive, è quello di sposare «unità discorsiva, tono parlato, intimità etc. etc.» con «un pizzico di umanesimo e di castità formale». E implora un «severo parere». Alle prese controvoglia con lo studio giuridico, Solmi risponde mandando una prosa scritta al fronte, Cadore, «paesaggio-stato d’animo» in cui si respira, a detta dell’autore, «un attimo di gioiosa eternità in chiaro tramonto di montagna». E l’altro reagisce dicendo tutta la sua stima per quella «cosa compiutamente bella» e confessando di sentirsi attratto all’arte per un’esigenza «d’indole essenzialmente etica più che estetica». È sempre Montale a confidare le proprie malinconie: «Sono un ingenuo complicato (…); sono un timido e un sentimentale, uno scettico pieno di vuoto; sono un vecchissimo fanciullo». Si considera sempre «in filo di rasoio: né letterato né uomo pratico» e lamenta di essere percepito «borghese tra gli artisti, artista fra i borghesi» nel piccolo ambiente genovese.
Le lettere, che si infittiscono tra il 1925 e il 1933, ci raccontano le vicende e gli intrecci di molte riviste («Pegaso», «Solaria», «Convegno», «Illustrazione Italiana», «Letteratura», «Cultura»…), tra cui «Primo Tempo», che Solmi fonda a Torino nel 1922 con l’amico di sempre (e per sempre) Giacomo Debenedetti, non necessariamente consentaneo con lui sul piano critico («è un giovine di molto ingegno e cultura, ma molto lontano da me per aspirazioni e per educazione»). Informato dell’iniziativa, che per la poesia può già contare su Camillo Sbarbaro e in ambito saggistico su Giovanni Gentile, su Adriano Tilgher, su Giuseppe Prezzolini, il 15 aprile Montale, afflitto da «nervi deboli» e insonnie, invia una poesia («Riviere con qualche ritocco»). E però precisa che l’opera di Gentile l’ha sedotto al più per un paio di settimane e che i suoi seguaci lo fanno «ridere a crepapelle». Non sopporta l’idealismo e anzi continua «a star fuori delle classificazioni, delle scuole, delle fedi». Anche per questo dichiara la sua «stima illimitata» per Emilio Cecchi e confida nel ruolo di Sergio nella redazione della rivista.
Seguiranno altri invii e scambi, tra cui un saggio di Solmi su Govoni nel quale l’amico coglie una complicità e un’affinità di gusti. A unirli c’è anche il sistema nervoso: quello di Sergio, stabilitosi a Milano in qualità di apprendista avvocato dal luglio 1923 con una laurea in Diritto romano, è «assai sconquassato», mentre l’entrata in scena del triestino Roberto Bazlen, calato a Genova per motivi di lavoro, porta all’amico una ventata di vitalità. Da Bobi nell’inverno 1923 Montale sentirà per la prima volta parlare di Italo Svevo, su cui Eugenio-Eusebio-Eusebius si schermisce ma non troppo come primo scopritore (e promotore) italiano: «Io conoscevo, è vero, la stima di Joyce per lo Svevo, ma ignoravo il futuro lanciamento, e sparavo le mie poche cartucce tutto solo, senza preveder troppo arguti forestieri, e rischiando quindi la figura del fesso». È pronto ad ammettere il primato dei francesi, semmai si scaglia contro i detrattori e stroncatori italiani, come il critico del «Corriere» Giulio Caprin. Nell’agosto 1926, Solmi lo informa di aver visto a colazione Svevo di passaggio a Milano («È davvero una persona simpatica, e assai modesta») e di aver incassato il rifiuto di Treves a pubblicarlo. Di rimando Montale propone il suo amaro referto: «Mi pare uomo in tutto degno dei tempi migliori; e mi fa pena vederlo muoversi nella pattumiera letteraria milanese. Io, nel suo caso, mi pagherei di mia tasca una buona traduz. francese, rinunciando per ora ad altra ediz. italiana».
Le lettere registrano anche la genesi degli Ossi di seppia, la cui pubblicazione, considerata la crisi di «Primo Tempo», viene dirottata verso le edizioni di Piero Gobetti, grazie ai buoni uffici di Solmi: «Io sono in abbastanza buoni rapporti con lui, e l’ho visto anche ultimamente qui a Milano – e potrei scrivergli raccomandandoti a lui. Se la cosa si combina, come è facile, non avrai da lamentarti». A fine maggio 1924 Solmi, ricevuto il plico, esprime la sua ammirazione all’amico poeta, riconosciuto come «uno dei pochissimi che hanno saputo dire se stessi». Il 10 luglio il manoscritto passa dalle mani di Solmi a quelle di Gobetti, durante un incontro milanese che ha anche un significato politico a poche settimane dal delitto Matteotti (ne nascerà per Solmi l’esperienza di «Rivoluzione liberale»). Il consenso dell’editore non tarda ad arrivare, anche se all’autore viene chiesto un contributo di almeno duecento prenotazioni. Montale si dà da fare a distribuire le cedole coinvolgendo nella raccolta, tra gli altri, Bazlen, Debenedetti e l’amico poeta ligure Angelo Barile: con successo, visto che in marzo i numeri supereranno di parecchio la soglia richiesta.
La raccolta d’esordio montaliana, una delle più importanti del Novecento, potrà così vedere la luce. Non senza penose vicissitudini tipografiche nella trafila tra le prime e le seconde bozze. Dopo l’uscita, i primi di luglio, Solmi dovrà sollecitare l’amico per entrare in possesso della sua copia, e quando la riceve non gli risparmia le sue acute osservazioni: «La veste è un po’ povera, e mi rincresce degli errori di stampa. Ad ogni modo è fatta e non c’è da rammaricarsene. Mi sembra che tu l’abbia un poco smilzito [sic]: Accordi, Musica silenziosa, e le altre liriche senza titolo del genere “fine dell’infanzia” che avevo lette manoscritte mi sembrava potessero esservi accolte senza timore di dispersione. Del resto la vittoria è sempre di chi sa limitarsi». Con qualche osservazione critica: «Dunque mi sembra che l’effetto lirico sia meglio raggiunto quanto meno la visione si tritura facendosi prosastica e descrittiva, e quando si libra in ampi stacchi sospesi (…)».
Per chi volesse, ci sono poi i vari passaggi che portano alla seconda edizione degli Ossi con la testimonianza di un intenso lavoro correttorio, aggiunte e varianti comunicate a Solmi e persino a volte concordate con lui. Il 17 agosto 1926 gli manda La foce (poi divenuta Incontro), che evoca il fantasma di Arletta, la ragazza frequentata per qualche estate a Monterosso. Con la solita raccomandazione autoriduttiva: «Se ti pare una gran porcheria, come temo, fammi il grande favore di dirmelo. Te ne sarò grato». La risposta arriva il 3 settembre, ed è sempre particolarmente arguta: «L’intonazione sacrificata e sotterranea della tua lirica comincia a distendersi, a trovare qualche gioia meno chiusa e trepida, e più consapevole». Montale dovrà aspettare il dicembre 1927 per avere la sospirata introduzione di Alfredo Gargiulo («Alleluja! Avevo quasi persa la speranza») e il gennaio seguente per vedere la prima copia del volumetto color ruggine pubblicato dalle edizioni torinesi Fratelli Ribet.
Naturalmente, spesso le parti si invertono. Anche Solmi, oltre che saggista e critico (soprattutto di area francese, ma anche su Leopardi e sul Novecento italiano), è un poeta, probabilmente influenzato dallo stesso Montale, il quale a sua volta avrà percepito e metabolizzato l’impegno civile e morale dell’amico. Il 5 gennaio 1937 è Montale a sollecitargli un invio («so che hai fatto altre poesie»), con la promessa di coinvolgere Alessandro Bonsanti, direttore di «Letteratura». Prosegue Montale: «Io ne ho scritto 23 in 11 anni e alcune devono essere anche brutte assai; quando ne avrò una quarantina farò il mio 2° e ultimo libro». Quando arriveranno Le occasioni, il 16 aprile 1940 nel ringraziare Sergio per la recensione, Eugenio aggiunge una punta polemica su Alfredo Gargiulo, poco convinto della seconda raccolta: «A parte le balle sui valori fonici e la prosa e l’oscurità (da parte di chi non trovò nessuna oscurità in Ungaretti), anche lui come Contini scava il fosso fra i due libri; la differenza è che dice di no alle Occasioni mentre Contini diceva no agli Ossi». Non dimentichiamo che i due amici, com’è buona regola da sempre in quella che si chiama società letteraria, non risparmiano le malignità: sull’amico comune Giacomino, «non disposto ad accettar riserve» sulle sue cose; sul buon Saba, che «vuole essere esaltato» e reagisce a una recensione di Montale con una lettera d’insulti…
Un’appendice di prose inedite e ritrovate, a cura di Letizia Rossi, meriterebbe un discorso a sé: sono recensioni, interventi critici, brevi pezzi usciti in forma anonima o con pseudonimo, che ora, sulla base delle lettere, vengono attribuiti con certezza a Montale e a Solmi.