Corriere della Sera, 5 dicembre 2021
Biografia di Tinto Brass raccontata da lui stesso
La casa, alle porte di Roma, zona La Storta, è un santuario pagano: c’è l’altare dedicato a Priapo, un tavolo con un enorme fallo in cartapesta, e ci sono le icone apollinee, nudi maschili e femminili. Il nudo più bello ha un altarino a sé: è quello di Caterina Varzi, la giovane moglie di Tinto Brass, e la foto incorniciata troneggia davanti al divano dove il regista non si stacca dal suo sigaro.
Ottantott’anni, salute malferma. Il dottore che dice?
«Può dire quello che vuole, io non lo ascolto».
Il lungo corpo a corpo con la censura, che ha tagliuzzato quasi tutti i suoi film, l’ha allenata a fare di testa sua?
«Lo sa come mi diverto oggi? Cerco i canali tv che di notte passano i miei lavori e mi incazzo ogni volta che vedo una scena massacrata».
Con Caterina Varzi lei si è «messo a nudo» nell’autobiografia appena pubblicata da Marsilio.
«Avevo fretta di farla uscire. Sono vecchio, potrei andarmene da un momento all’altro. Undici anni fa un’emorragia cerebrale mi tolse memoria e parola. Mi ha salvato Caterina: la sera si spogliava davanti a me. La guardavo, mi eccitavo e così ho ritrovato la voglia di vivere».
Ma tutto in lei parla di vita. A cominciare dal nome, Tinto, che viene da Tintoretto, il pittore della luce.
«Mi chiamo Giovanni ma avevo un nonno pittore famoso, Italico. Negli anni aveva raccolto una bella collezione d’arte a Venezia. Sono cresciuto guardando le forme delle donne di Tintoretto e mi hanno dato il suo nome perché amavo quell’artista. Ma anche i seni dipinti da Tiziano».
Però ci sono dei film, come «Salon Kitty», nei quali Eros danza con Thanatos.
«In quel film denuncio la violenza nazista. E mentre lo stavo girando mi giunse la notizia che mio padre era morto. Lui era stato fascista e per tutta la vita io ho usato il sesso come strumento per liberarmi da quel senso di oppressione che respiravo in famiglia».
Borghesia vissuta a Venezia anche se lei è nato a Milano...
«Con mio padre litigavo ma poi, di nascosto, andavo a sentirlo arringare in tribunale, era un famoso avvocato. Con mia madre no, non ci siamo mai capiti. Mi giudicava, disprezzava la mia indole carnale, era dura e fredda. Una volta venne sul set de La chiave. Non battè ciglio, ma alla fine mi disse: “Bene, ce l’hai fatta, sei diventato un regista. Adesso per favore metti la testa a posto e comincia a fare l’avvocato”. A lei non penso mai, però il fatto di non essermi riconciliato con mio padre oggi è il più grande rimpianto».
Lei da ragazzo frequentava i bordelli quasi ogni giorno.
«Le ragazze le portavo fuori, le amavo in barca. Ancora oggi io ho continue visioni erotiche. Ricordo un amore consumato nei pressi del manicomio di San Servolo. Assorbivo tutto: la carnalità delle donne nei racconti veneziani, l’odore del mare, gli amori di Casanova, la letteratura licenziosa. Ecco perché ancora oggi alcuni miei film danno fastidio. Che cosa c’è di più dirompente dell’eros?».
Eppure oggi la violenza al cinema viene tollerata, l’eros no, almeno nelle opere nazional-popolari.
«L’eros spaventa il potere, perché è soprattutto fantasia e quella non la puoi arginare. È sovversivo. Intellettuali come Fellini o Moravia l’avevano capito e io sono stato un loro grande amico. Andavo spesso a casa di Alberto. C’era Dacia Maraini, bellissima. Sì, be’, ho provato a corteggiarla ma lei mi gelava con lo sguardo».
Silvana Mangano, invece, rispose.
«Un sentimento molto speciale, durato quasi tutta la vita. Io me la ricordavo bellissima nelle braghe corte da mondina in Riso amaro, ma poi cercarono di “ripulirla” facendone una diva sofisticata e fredda. La volli nel mio film Il disco volante. Le feci fare la parte di una donna del popolo, la vidi rifiorire».
Lei ha conosciuto Sartre. Che cosa vi siete detti?
«Abbiamo parlato di cinema, di eros, di libertà. Ho incontrato anche Bertrand Russell. Quando uscì il mio primo film, In capo al mondo, in sala c’era Ungaretti».
È vero che lei avrebbe dovuto essere il regista di «Arancia Meccanica»?
«Certo. Andai in America, tutto era pronto ma dissi che prima volevo finire L’Urlo».
Lei ha lavorato con tante donne. Che rapporti ha e ha avuto con Sandrelli e le altre?
«Quando si vide per la prima volta ne La chiave Stefania Sandrelli uscì dal cinema senza dire una parola, ma poi spese parole bellissime per il film. Con Anna Ammirati («Monella», ndr) l’anno scorso abbiamo fatto Pasqua assieme. Koll non l’ho più sentita».
Le donne più importanti?
«Tinta, mia moglie morta anni fa è stata un cardine. Oggi però senza Caterina sarei finito: lei si dedica a me, cura l’archivio, per me è tutto. Ma vorrei ricordare anche l’avvocato Rita Rossi. Sa, uno come me è sempre in mezzo a questioni legali. E meno male che anche io sono laureato in legge».
Tinto, sia sincero: che cosa le manca oggi?
«Non poter più fare l’amore due o tre volte per notte».