Ora però silenzio. Parla McEwan. Scontata eleganza, camicia bianca, giacca grigia e pantaloni beige, l’autore di Espiazione e Amsterdam si toglie la mascherina nera e inizia un lunghissimo e sensazionale discorso, culminato da domande e risposte da ragazzi della fondazione Orwell, lettori eccitati e londinesi appassionati.
McEwan parte proprio dall’unico incontro in vita tra il 33enne George Orwell e il 45enne Henry Miller, nel dicembre del 1936 a Parigi, dove l’inglese tre anni prima aveva ambientato il tristissimo Senza un soldo a Parigi e a Londra. Due leggendari scrittori, che nutrono reciproca ammirazione ma anche distacco: Orwell è estremamente impegnato in politica e già stretto nella morsa della sua vita, tra l’incubo nazi-fascista e la precoce delusione comunista. «E peccato», ricorda McEwan, «che un altro incontro a Parigi con un esule dell’ortodossia intellettuale di sinistra come Albert Camus non ebbe mai luogo per la tubercolosi di quest’ultimo ». Ma l’anello di congiunzione tra i due, aggiunge, potrebbe essere Henry James, che pure non era impegnatissimo: «Un suo concetto sintetizza perfettamente il pensiero di Orwell: la libertà è un esercizio quotidiano».
«Orwell – racconta McEwan – era profondamente coinvolto nell’antifascismo, nella giustizia sociale e nella lotta all’imperialismo », vedi Sparando all’elefante (1936). «Mentre Miller della politica è totalmente disinteressato e si lascia andare all’edonismo, all’erotismo. Perciò Miller è “nel ventre della balena”: parola di Orwell ». Per quest’ultimo, uno scrittore non poteva ignorare le colossali questioni politiche, sociali ed esistenziali di inizio XX secolo. «Perché altrimenti la libertà di pensiero sarebbe presto diventata un peccato mortale, e poi un’assurda astrazione », nota McEwan. «Lo scrittore infatti, scrive Orwell, siede su un iceberg che si scioglie». Tuttavia, per Miller andare a combattere in Spagna per i repubblicani, come fece Orwell nel suoOmaggio alla Catalogna, era «un’azione da idioti» in quel momento. E, sottolinea McEwan, «andava in giro a dire che se avesse potuto trascorrere cinque minuti con Hitler e farlo ridere, si sarebbe evitata pure la guerra. Tuttavia, Miller regalò a Orwell un giubbotto: “Ti proteggerà dal freddo”».
Secondo McEwan, l’impegno di Orwell in letteratura è incarnato proprio dal pessimismo del suo massimo capolavoro, 1984. «In questo, non sono d’accordo con il mio amico Salman Rushdie, per cui l’atroce sconfitta del protagonista Winston Smith farebbe passare il concetto che combattere è inutile. Non è così: è proprio quel pessimismo a essere capitale. Se ci fosse stato un lieto fine, avrebbe perso tutta la sua potenza ipnotica».
Poi, per McEwan, oltre al Mondo Nuovo di Aldous Huxley, viene Italo Calvino. Non quello delle Cosmicomiche o Se una notte d’inverno un viaggiatore,bensì La giornata d’uno scrutatore (1963), romanzo cerniera del suo successo e della trincea tra Democrazia Cristiana e Pci nell’Italia post-bellica, con protagonista l’intellettuale comunista Amerigo Ormea il cui compito, nell’istituto per minorati fisici e mentali Cottolengo di Torino, è controllare che non ci siano brogli dei centristi nel voto per le elezioni del 1953: «Ecco, il Calvino dello Scrutatore», spiega McEwan, «per me è l’esempio di come un romanzo politico non possa avere successo se alla base non ha una potente e convincente esperienza personale. Uno scrittore non può essere impegnato politicamente se si limita a guardare dalla finestra».
Ma oggi qual è il vero impegno di uno scrittore, chiedono dalla piccola platea della Conway Hall? McEwan si prepara a sorprendere tutti: «Potrebbe nascere da molte cose: gli alternative facts di Trump, lo scontro Usa-Cina nel Pacifico, Pechino e la società orwelliana, la Brexit, l’intelligenza artificiale, le minacce della Russia, gli Stati Uniti e i suprematisti, i diritti in Arabia Saudita, e soprattutto il climate change: uno degli argomenti più difficili per un romanzo perché ampio e complicato, nonostante la sua universalità sempre più soverchiante, ma qualcuno come Amitav Ghosh o Margaret Atwood ci ha provato».
Insomma, lo scrittore fa bene ad essere impegnato, sostiene McEwan, perché «non dimentichiamo mai che la libertà di parola, per esempio, è scomparsa per un millennio durante il medioevo cristiano e c’è voluto ancora più tempo per rileggere Democrito». Ma attenzione, avverte il romanziere inglese, «lo scrittore non deve mai perdere la sua solitudine». Perché anche essa può essere impegno.
In che senso? «La solitudine è uno dei grandi lussi della civilizzazione e degli scrittori, ma è sempre più minacciata dal mondo iperconnesso. L’abolizione della solitudine per me è un incubo». Ma cosa c’entra con l’impegno degli intellettuali? Allora McEwan cita la sua ultima opera di riferimento, un haiku di Matuo Basho, il grande poeta giapponese del XVII secolo: «Il vecchio stagno. La rana si tuffa. Il suono dell’acqua». «Ecco – ci illumina McEwan – al mondo ci sono 7 mila specie di rane. Le rane sono sulla Terra da 200 milioni di anni, contro i circa 2 milioni dell’essere umano. Si adattano molto all’ambiente ma sono anche sensibili: non a caso 2.500 specie ora sono a rischio di estinzione. E così, anche il solo ammirare il loro semplice tuffo nello stagno è una dimostrazione di impegno. Non significa ignorare i pericoli per la loro sopravvivenza. Perché, come scrisse lo stesso Orwell, “lo scrittore che non si prende simili libertà rinuncia a quest’ultima. E invoca la propria autodistruzione”». Applausi.