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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Intervista ad Andrea Vitali

«Mi può richiamare fra cinque minuti? Sto finendo una vaccinazione...». Andrea Vitali risponde da Bellano, lago di Como, il suo «quartier generale», il paese dove è stato medico condotto per venticinque anni e dove ambienta i suoi romanzi – ormai arrivati a una cifra enorme, oltre settanta, la gran parte dei quali pubblicati da Garzanti – come l’ultimo nato, La gita in barchetta (Garzanti, pagg. 266, euro 18,60). È la storia di tre sorelle, di cui una, la più bella, da maritare, che si intreccia alle vicende della famiglia (siciliana) del possibile fidanzato e, anche, a quelle di un mezzo maniaco puzzolente odiato da tutti, di una congregazione di suore con una presidentessa ambiziosa, di alcune vicine dal naso fino... In quel miscuglio unico di sguardi, voci e legami che è un paese. Tanto più se è la Bellano di Andrea Vitali.
Dato che stava vaccinando... Come è tornato a fare il medico?
«Durante la pandemia c’era bisogno: con il collega di qui siamo amici da vent’anni, perciò ci siamo divisi le visite domiciliari e i vaccini, per tappare qualche buco. Ora sto facendo i vaccini per l’influenza ma, fino a che qui a Bellano c’era il sito, ho fatto anche quelli anti Covid. Tutto rigorosamente da volontario».
Ha detto che fare il medico l’ha aiutata anche nello scrivere, perché le ha insegnato a non giudicare. È ancora così?
«Diciamo che non condanno. Però giudico chi non ha ancora capito che questo è un vaccino, non un preparato misterioso buttato in giro dalla fata Morgana, e che ha salvato migliaia di vite».
È tornato a fare il medico ma non ha mai smesso di scrivere.
«Eh, no. Come fare qualcosa di utile, per esempio i vaccini, scrivere dà un senso alle mie giornate: devo mettere qualcosa su carta tutti i giorni, per un’ora o per otto, anche solo delle idiozie».
Come fa a scrivere sempre?
«La mia fortuna è che ho sempre qualcosina da raccontare, un romanzo, un racconto... Non ho l’angoscia di domandarmi: che cosa scrivo oggi? E domani? Lo so già».
E dove trova continuamente queste storie?
«Sono un fruitore degli archivi storici del nostro quotidiano locale, La Provincia di Como e Lecco: amo le cronache del circondario fra i primi del Novecento e gli anni ’60-’70. L’altro ieri, per esempio, ho scoperto una cosa fenomenale: a Como, negli anni Trenta, esisteva un Istituto delle zitelle povere, gestito da suore, ma si rende conto? Una cosa fantastica. Raccoglievano le giovinette destinate a traviarsi, le istruivano ad amor di patria e religione e conducevano le più dotate a una patente di maestra».
E che cosa ne farà?
«Intanto ho già il titolo: La maestra delle zitelle povere. Io parto così, poi lascio che l’idea si sedimenti, finché diventa, spero, una storia... E, come questa, ne ho altre due o tre».
A proposito di titoli, l’ultimo, La gita in barchetta, è un po’ malinconico, come il romanzo.
«Sì, ed è voluto. La prima stesura di questa storia risale a vent’anni fa, poi è rimasta nel cassetto – io faccio così, lascio le storie nei cassetti, ogni tanto le tiro fuori, le rileggo, le sistemo, poi le rimetto via... Insomma in questa storia sentivo che c’era qualcosa di incompiuto ma appunto, per vent’anni, non sono riuscito a capire che cosa».
E poi?
«E poi, forse perché dovevo maturare anche io, ho capito che c’era un certo sentimento di nostalgia, e di malinconia, che aveva bisogno di essere espresso. E che mancava anche un elemento meteorologico, il vento che soffia a un certo punto, e che diventa lui stesso un personaggio».
In copertina c’è scritto: «Il grande narratore dell’Italia più vera».
«Non ho responsabilità di quello che scrivono in copertina. Avrei tolto grande, perché non sono così vanitoso, mentre narratore mi piace».
Però è così, racconta «l’Italia più vera», o almeno una parte di essa?
«Sì, è una parte di Italia, ed è vera, perché ce l’ho sotto gli occhi; e sono cose che capitano ovunque, che potrebbero essere messe in scena in qualsiasi luogo. Poi io sono fortunato, perché ho un teatro naturale sotto gli occhi, e uso quello».
È l’Italia più vera anche perché racconta di persone «normali», i «morti di fame» che sono «tutti uguali» come dice la vedova Cereda nel libro?
«È vera perché io sono uno di loro, una persona comune. Ed è vera anche perché, in venticinque anni da medico condotto, ho incontrato molte persone comuni e ho capito che, quando le conosci, di persone comuni ce ne sono poche, anzi, spesso ti riservano delle sorprese».
Perché Bellano è un teatro naturale?
«È l’ambiente ideale per calarci ogni tipo di storia, basta adattarla al lago sotto gli occhi e alla terra sotto i piedi. E poi ci sono tutti i luoghi classici delle storie: la caserma, il municipio, la chiesa, le contrade, i negozi come il ciabattino, il panettiere, il laboratorio di sartoria, che magari oggi non ci sono più, ma non importa, io me li invento, anche perché mi ricordo perfettamente di quando c’erano, e della vivacità che c’era in paese, tutto un movimento di persone e di chiacchiere».
Ha un grandissimo successo: che cosa ha intercettato nel pubblico?
«Innanzitutto racconto storie che non hanno niente di criminale. Sì, c’è una suspense, ma legata a fatti tipici della commedia all’italiana. Sono storie leggere in senso positivo per me, che, per un paio d’ore, fanno dimenticare il guaio che ti preoccupa e ti immergono in un mondo allegro, a volte grottesco, dove, nella maggior parte dei casi, finisci col sorriso. Poi c’è il rapporto con il lettore».
Che tipo di rapporto?
«A volte la gente mi dice: sai che una cosa che hai raccontato è successa anche qui? Oppure: se lei vivesse qui, ne avrebbe di storie da raccontare... Il lettore prende la storia e la cala nel contesto in cui vive, e questo è bello, ma non solo: significa che, in quel momento, lo scrittore diventa quello che è, una persona normale che fa la cosa che gli piace. O magari due, tanto c’è tempo per fare tutto».