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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Intervista a Deanna Dikeman, la donna che immortala gli addii

Ci vuole talento per sapersi dire addio e Deanna Dikeman lo sa. Di infiniti ultimi saluti, famiglia e forza del dolore parla Leaving and Waving, “Andando via e salutando”, il libro fotografico che ha vinto quest’anno il prestigioso premio Nadar. Per 27 anni Deanna ha fotografato i suoi genitori agitare le braccia sulla soglia di casa mentre le auguravano buon viaggio. “La prima immagine che ho scattato nel 1990 non era neppure a fuoco, un click ‘not serious’, né serio né ambizioso”, dice su Skype rispondendo dalla sua casa in Texas. Con alle spalle gli archivi degli addii, custoditi con meticolosità certosina, racconta di come, da quel primo negativo, ha continuato a scattarne migliaia, per ogni arrivo e ripartenza dalla casa dei suoi genitori a Sioux City, Iowa.
Deanna, trent’anni dopo quel primo scatto, Leaving and Weaving è diventata una delle migliori 20 storie dell’anno secondo il New Yorker.
La prima parte della serie è stata composta pensando che nessuno avrebbe mai visto quelle foto: credevo fossero negativi destinati solo ai miei occhi. Ho cominciato a fotografare quando i miei genitori mi hanno detto che stavano per vendere la casa in cui sono cresciuta. Io – che ero andata in giro per il mondo a immortalare sconosciuti – non avevo memorie del luogo in cui sono diventata grande. Quel pensiero era troppo triste e mi sono infilata in auto: ho guidato per 400 miglia, circa 600 km. Volevo forse soprattutto dimostrare una cosa: sono stata fortunata, sono stata amata. Poi ho capito che, prima o poi, proprio come la casa, anche i miei genitori sarebbero scomparsi.
Ci descriva la prima Kodachrome.
La casa è così rossa, la maglia di mia madre così rosa, il suo volto in piena luce, il prato è verdissimo. Mio padre è a fuoco in lontananza, sotto un albero e un cielo di un incredibile blu. Dettagli si colgono dallo specchio retrovisore dell’auto. Quando li ho inquadrati non pensavo all’inizio di un lungo racconto, ma solo al gesto archetipico che si ripete in ogni famiglia del mondo quando un figlio parte.
In tre decadi di addii, una foto dopo l’altra, le epoche trascorrono, le mode e le stagioni passano, i panorami cambiano. Ci sono cornici nelle cornici: i finestrini delle auto, e anche quelle variano. Una sola cosa non muta: i suoi genitori che le fanno ciao.
Si chiamano Gerald e Corrine, detti Pat e Gerry, entrambi di discendenza olandese. Mio padre è la ragione per cui sono diventata fotografa: armeggiava con otturatori e diapositive da quando ero piccola. Solo quando è morto nel 2009 ho capito davvero che stavo raccontando la storia degli addii. Nell’ultima foto che ho di lui sta sfogliando le stampe di 27 Goodbyes, una prima raccolta pubblicata grazie ai 50 mila dollari del premio americano della United artist. Mia madre, che non ha subito compreso la mia scelta, voleva che il progetto terminasse con la vita di suo marito.
Lei non le ha dato ascolto.
Era ormai diventato il nostro modo di salutarci, un rituale non più sostituibile. Ogni volta che andavo via, mi veniva da piangere: fotografarla era un modo per farlo meno. Ho continuato finché è morta nel 2017.
Che cos’è per lei una fotografia?
Memoria. Ogni volta che andavo via di casa non potevo portare via i miei genitori, ma potevo trattenerli su un pezzo di pellicola. Era l’unico metodo per “salvarli”.
In tanti ci siamo vestiti a lutto in questi anni di pandemia. Nei palmi dei suoi genitori che si agitano, moltissimi hanno visto quelli dei loro cari.
Ho cominciato a ricevere decine di messaggi, lettere, email di persone commosse. Tra loro, tantissimi italiani. Non pensavo che nella mia questione privata rivedessero i loro ultimi saluti, rivivessero i loro personali lutti. Il virus ha impedito a molti anche di dire addio per l’ultima volta.
L’ultima foto che chiude l’opera è quella di un garage chiuso, l’uscio definitivo, vuoto: Pat e Gerry non ci sono più. Cosa c’è nel mirino del suo obiettivo adesso?
Quando mio figlio ha terminato l’università e stava per infilarsi in auto per raggiungere Saint Louis, mi ha chiesto perché non lo fotografo. Sapevamo entrambi che era in atto un cambiamento e quel primo scatto fu simbolico quanto il giorno in cui è stato fatto: il giorno in cui andava via di casa, diventava adulto.
Adesso si trova dall’altra parte della barricata: tocca a lei salutare. Tra i migliaia, quale addio di Pat e Gerry è il suo preferito?
Uno scatto non rientrato nella selezione finale del libro: mia madre bacia mio figlio da piccolo, mio padre punta dritto verso il mio obiettivo e sorride. Quello sguardo mi dice che lui sapeva esattamente, sin da principio, cosa stavo facendo.