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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Orsi&Tori


   

Un delitto atroce. Tra poche settimane, il 28 dicembre, si compirà l’atto finale dell’eliminazione dal mercato della figura, fondamentale per il territorio, delle banche popolari quotate in borsa. Si terrà infatti l’assemblea per l’approvazione del nuovo statuto della Banca popolare di Sondrio, che nella forma non sarà più una cooperativa per azioni ma una spa, come tutte le altre banche ordinarie del Paese. Ciò che avverrà, non certo per volontà degli amministratori e dei soci, che si sono battuti fino all’ultimo perché ciò non accadesse, lo ribadisco, è un vero e proprio delitto, frutto di criteri dirigistici e non democratici. Le banche popolari sono state sempre l’emblema ideale e pratico della solidarietà, della socialità verso i più piccoli imprenditori e cittadini bisognosi di credito e di servizi finanziari.

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E la fine avviene mentre dilaga l’uso della parola sostenibilità, che vuol dire anche inclusione e non esclusione,
come è stato garantito negli anni dalle banche popolari (aggettivo non casuale) attraverso la massima socialità possibile, tipica del resto delle cooperative.
Si è arrivati alla fine perché una legge irrazionale e iniqua varata durante il governo Renzi, ma provocata dal rigorismo dell’Unione europea, ha previsto alcuni anni fa che le banche cooperative con un attivo di bilancio superiore a 8 miliardi di euro non potevano più avere la regola del voto capitario a prescindere dal numero di azioni possedute. Legge irrazionale perché ha fatto di ogni erba un fascio, senza stabilire la continuazione storica per le banche popolari con andamento positivo e quindi in grado di continuare la propria missione, obbligando invece alla trasformazione quelle che erano in pericolo o fuori controllo.

Ecco, Banca popolare di Sondrio è sempre stata efficiente e ricca di soddisfazioni sia per i clienti che per i soci. E ora viene costretta a cambiare natura nonostante quanto, con un impegno professionale e sociale straordinario fa da decenni, riuscendo a dare sempre solidità e utili significativi anche nella crisi che molte banche hanno subito a metà del secondo decennio del secolo.
Il presidente in carica Francesco Venosta, il bravissimo amministratore delegato Mario Pedranzini, insieme all’intero consiglio, hanno attivato tutti i ricorsi possibili e quando è arrivata l’ultima decisione negativa del Consiglio di Stato, hanno avviato una negoziazione, difficilissima, con la Bce per cercare di salvare il salvabile delle caratteristiche uniche e utili per l’economia e la società civile italiana.
I risultati positivi sono essenzialmente tre. Il primo è una riaffermazione nello statuto dei princìpi che hanno sempre animato la banca e che quindi costituiscono un vincolo formale e sostanziale formale: «È riaffermato l’impegno della Banca, in sintonia con la tradizione del credito popolare, a favore delle famiglie, piccole e medie imprese, cooperative, enti pubblici e privati, con particolare attenzione ai territori serviti, a partire da quelli di origine della Valtellina». Il secondo risultato: il consiglio d’amministrazione sarà rinnovato in maniera graduale di solo 1/3 per volta e questo terzo potrà essere candidato da chi ha almeno l’1% delle azioni e dallo stesso consiglio d’amministrazione. Il terzo è che alla lista di maggioranza vadano tutti i posti tranne uno, destinato alla seconda lista.

Meglio di niente, ma solo lo spirito di solidarietà incarnato negli amministratori e nella tradizione dei valtellinesi potrà continuare a rendere la Popolare di Sondrio, fondata nel 1871 e ispirata al movimento popolare cooperativo del credito propugnato da Luigi Lazzari, una banca diversa da qualunque altra ordinaria. Anche per efficienza.
Visto che cambia la natura della banca, è inevitabile il diritto di recesso degli azionisti che non accettano la profonda trasformazione della Popolare di Sondrio.
Per decenni e fino alla trasformazione, questa banca ha avuto una governance e un modo di lavorare dei suoi dirigenti che definire straordinario è poco. Il penultimo amministratore delegato, Mario Melazzini, per 63 anni nella banca, aveva stabilito una regola straordinaria. Da uomo di montagna, si alzava all’alba e leggeva dieci giornali; poi, a piedi faceva alcuni km per arrivare in banca e dare il tempo ai dirigenti di leggere anche loro i dieci giornali. Alle 8 erano pronti per la riunione giornaliera. Un mito, ma soprattutto un uomo che sapeva quanto fosse importante l’essere sempre informati su tutto per poter fare bene il banchiere e anche il bancario. L’attuale ad, Pedranzini è cresciuto accanto a Melazzini e la pensa come lui ed esprime la stessa efficienza e umanità. A una cena eravamo seduti accanto e a un certo punto mi disse: «Ma lo sa che la notte spesso non dormo, pensando alla sorte che tocca ai debitori il cui debito npl abbiamo dovuto cedere, per disposizione, a soggetti che non useranno mezzi termini per riottenere indietro le spettanze, sicuramente di entità superiore a quella a cui noi siamo stati costretti a cederle…».

Ma c’è stata e c’è un’altra caratteristica della Popolare di Sondrio: l’aggiornamento minuto per minuto dello status e dei conti della banca, sì da aver stabilito il primato di tempestività nella presentazione del bilanci definitivo già a fine gennaio e di inviare immediatamente a tutti gli azionisti la lettera con i dati e la loro spiegazione ben prima dell’assemblea. Valori che non solo hanno reso la Sondrio la banca più efficiente d’Italia, ma anche quella che ha goduto e godrà della maggiore fiducia dei suoi azionisti.
Sul piano operativo, un solo esempio: la banca delle montagne è stata la prima a intuire l’importanza della Cina e a organizzare e ad essere autorizzata al cambio con la moneta cinese e un po’ con tutte le monete del mondo, per servire le pmi più attive nell’ export.
Ma tutta questa efficienza, questo impegno, questi risultati non sono stati sufficienti a conservare la forma di cooperativa, confondendo Sondrio con altre popolari, peraltro non quotate, che erano invece il segno più visibile dell’inefficienza.

Che senso ha eliminare dal mercato la forma cooperativa che, come dice il nome, coopera con i suoi clienti e azionisti per sviluppo e benessere? Per questo è stato commesso un delitto veramente atroce.
* * *
Una banca come la Sondrio con spirito cooperativo e organizzazione e visione internazionale se non addirittura globale, avrebbe ascoltato volentieri quanto è stato spiegato e analizzato venerdì 3 nella quarta edizione della giornata di informazione sulla iniziativa cinese della Via della seta, ora diventata Via della seta digitale. In collegamento video via satellite e online in tempo reale fra Class Cnbc e CNC, il canale tv globale di Xinhua, il più grande gruppo multimediale cinese partner di Class Editori, rappresentato da Xu Yichang presidente del China Economic information service (Ceis), c’è stato in particolare, insieme agli ambasciatori d’Italia a Pechino e di Cina a Roma, a professori, analisti, imprenditori, un intervento speciale di un personaggio speciale. Il professore Alessandro Arduino, principal research fellow presso Mei- National University of Singapore. Che ha risposto alle domande del momento: quali sono le opportunità della Via della Seta digitale per le imprese, quelle italiane in particolar modo, che intendono investire con la Cina in Paesi terzi? Quali sono le problematiche di geopolitica e sicurezza nazionale? E come è lo stato dell’arte in tema di competizione e cooperazione tra gli Stati Uniti e la Cina? Ecco la sua analisi.

«Nel 2013 il presidente Xi Jinping ha lanciato la Belt & Road Initiative, che è stata innanzitutto connettività fisica con treni ad alta velocità, autostrade, porti e free zones intermodali per la logistica. La Digital Silk Road o Dsr, non è soltanto 5G, non vuol dire Belt& Road col 5G o col 6G, bensì è tutto quello che è connettività digitale. È stata lanciata nel 2015 e ad oggi è una componente essenziale della Belt & Road Initiative. Essa coinvolge molti attori a tutti i livelli, dal settore pubblico a quello privato cinese, anche se definire dove il settore pubblico finisce e inizia quello privato è un po’ più difficile. Per esempio, nel 2018, gli investimenti in infrastrutture digitali al di fuori della Cina assommavano a 80 miliardi di dollari, ma in realtà ben di più se si pensa che per il Pakistan Connection Project l’investimento è pari a 63 miliardi di dollari. Per effetto dalla pandemia, la Via della Seta digitale può essere il trampolino di lancio per le aziende che vogliono affacciarsi anche virtualmente su nuovi mercati, per esempio il Vietnam, Singapore, la Malesia e Indonesia, i Paesi del Golfo e il continente africano, aree già coperte dalla Belt & Road Initiative. Sono tutte economie differenti tra di loro però con caratteristiche comuni, da una popolazione giovane cosiddetta digital native a un’alta penetrazione di Internet attraverso la telefonia cellulare.

La società digitale si fonda essenzialmente su quattro pilastri: il primo riguarda lo sviluppo delle infrastrutture digitali critiche: 5G, cavi terrestri sottomarini per trasmettere Big Data ad alta velocità, sistemi di navigazione satellitari globali. Il sistema BeiDou ha già un arcipelago di satelliti che permette il posizionamento globale in competizione con il rivale americano Gps e in aree che vanno dal Pakistan alla Thailandia al Medio Oriente fino in Africa. Il secondo pilastro della Digital Silk Road si basa su e-governance, e-commerce e Fintech. Il terzo pilastro sono le Smart City, le città intelligenti che offrono servizi che vanno dai centri di archiviazione dati al cloud internet of things e ai big data analytics. Il quarto pilastro, sottovalutato in Occidente, è che la Cina è un esportatore di servizi di sicurezza digitali, che vanno dal riconoscimento facciale al monitoraggio delle folle, alla cybersicurezza a 360 gradi. Dal punto di vista geopolitico, la Via della Seta digitale è da considerare non soltanto come parte della strategia cinese per aprire nuovi mercati ai propri colossi dell’high tech, come Alibaba, Tencent o Huawei ma è soprattutto un pilastro per il conseguimento di ambiziosi progetti nazionali. La Cina, al contrario di quanto spesso viene detto sui media, non nasconde le proprie ambizioni. È passato molto tempo da quando ubbidiva al detto di Deng Xiao Ping di mantenere un basso profilo. La Via della Seta digitale diventa la base, la piattaforma di partenza degli obiettivi nazionali cinesi riassunti nel made in China 2025, nel Cina Standards 2035 e nella politica di sviluppo dell’intelligenza artificiale, come già dimostrato in maniera estremamente interessante ed informativa dal professor Mario Rasetti. Non dobbiamo però dimenticare le debolezze economiche del sistema cinese, come per esempio nella produzione dei microchip, che fa sì che la Cina sia ben integrata nel sistema globale perché la Cina assorbe il 40% del mercato dei microchip.

Nonostante la crisi di fiducia tra gli Stati Uniti e la Cina, rimane per entrambi la necessità di stare all’interno del mercato globale: in questo senso il governo cinese sta cercando di ridurre la dipendenza da altri leader tecnologici, in particolare gli Stati Uniti stessi, Giappone e anche taluni paesi dell’Unione europea. La Digital Silk Road aiuta i giganti della tecnologia cinese e le piccole e medie imprese cinesi a incrementare vendite, acquisire know how con un punto di appoggio nei mercati esteri, spesso con l’aiuto e l’agevolazione politica dello stesso governo.
In questo senso, la via della seta digitale si concentra anche su economie sviluppate, da Singapore all’Unione europea e può supportare la crescita economica e offrire una serie di investimenti e opportunità di vendita anche per aziende italiane che non sono legate prettamente ai mercati tecnologici.

Vorrei infine porre l’attenzione su un altro punto come ha accennato il direttore Panerai sulla competizione e la cooperazione con gli Stati Uniti nella governance digitale. Spesso in questo periodo, a mio modesto parere in maniera del tutto fuori luogo, viene fatto un paragone con la Guerra Fredda. È un paragone fin troppo semplicistico, anche perché all’epoca dell’Unione Sovietica vi erano due sistemi completamente disgiunti, in competizione fra di loro per una supremazia basata sulla distruzione dell’altro modello. Quest’oggi la competizione tra Stati Uniti e Cina e all’interno di un unico sistema, un sistema globale in cui siamo tutti inseriti.
Ma la pandemia ha ristretto la global supply chain o per meglio dire, accorciato le catene di distribuzione a livello regionale e purtroppo ci stiamo avviando a una cosiddetta separazione degli ecosistemi digitali, tra sistemi occidentali e sistemi cinesi non comunicanti tra di loro. Se la divisione procede in questa direzione, si arriverà a una criticità tale da danneggiare tutto il sistema economico. Ciò non toglie che vi sia una speranza, che ho visto non nell’incontro tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il suo omologo Anthony Blinken in Alaska, ma durante l’incontro virtuale tra Joe Biden e il presidente Xi Jinping. Spero che si possa trovare una governance digitale, in cui anche l’Unione europea possa avere un ruolo trainante, non solo per migliorare la globalizzazione ma soprattutto per ridurre il divario digitale». (riproduzione riservata)