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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Irma Testa fa coming out

Sul ring, Irma Testa sta spesso con le braccia lungo i fianchi, e aspetta. In gergo tecnico questa tattica di combattimento si chiama «attendista»: saper aspettare è, dentro e fuori le corde, la sua virtù. L’esperienza le ha insegnato che il momento buono arriva sempre, nello sport e anche nella vita. A lei è successo che il primo si è portato dietro il secondo: quest’estate a Tokyo ha vinto, prima donna italiana della storia, una medaglia olimpica per il pugilato e, forte di quella vittoria, ha trovato la voglia (non il coraggio: quello ce l’ha sempre avuto) di raccontare in questa intervista un pezzo di verità su sé stessa. Di fare coming out.
«Le persone che mi stanno vicino lo sanno da anni, ma credo sia giusto, ora, dirlo a tutti. Parlare di orientamento sessuale nel mondo dello sport ha un valore speciale, perché ai campioni si chiede di essere perfetti. E per molti l’omosessualità è ancora un’imperfezione. Per timore di intaccare la propria immagine tanti sportivi tacciono e si nascondono. Anche per me è stato così fino a pochi mesi fa. Ma quella medaglia di Tokyo è diventata il mio scudo: ora che la Irma atleta è al sicuro, la Irma donna può essere sincera. E lo faccio in un momento in cui esporsi è diventato fondamentale. Se io mi sono sentita protetta e al sicuro in questi anni è stato per la corazza che mi porto addosso, per il mio carattere: sono una donna forte di natura. Ma non tutti sono così. Ci sono persone che soffrono per le discriminazioni, che sono vittime di bullismo, che non riescono a costruirsi una vita perché non sanno come relazionarsi con una società che è loro ostile. Ogni essere umano dovrebbe essere protetto e al sicuro. O almeno tutelato. Chi può proteggerti se non lo Stato, le sue istituzioni, le sue leggi? Ci sono ancora troppe persone discriminate e questo non va bene. Non va più bene. Io non posso fare molto, ma posso, dicendo la verità su me stessa, dire anche che nulla è sbagliato».
Che cosa l’ha trattenuta dal farlo fino a oggi?
«Temevo la gente mi vedesse gareggiare e pensasse: “Ah guarda, c’è quella così”, invece di dire: che brava!».
Lei dice «quella così» e non dice «lesbica». C’è un motivo?
«Non dico che sono lesbica perché nel mio futuro può esserci anche un uomo. Da quando ero ragazzina provo attrazione per le donne, ma qualche volta l’ho provata anche per i maschi. Le etichette è giusto che ci siano: per fare che le cose diventino normali bisogna prima passare dalle etichette. Ma io non le uso perché a me non piacciono».
È stato pesante nascondere la verità?
«Mi è capitato di parlare, anche pubblicamente, delle persone che ho amato cambiandone il genere. E questo mi ha dato dispiacere. Per me, ma soprattutto per loro che, leggendo ascoltando le mie parole, potevano sentirsi offese, ferite, invisibili. Invece alla mia famiglia la verità non l’ho mai nascosta. La prima volta che mi sono innamorata di una ragazza ho aspettato un pochino, per vedere che non fosse un fuoco di paglia, e poi l’ho detto a mia mamma. Non avevo nemmeno sedici anni».
Come l’ha presa sua madre?
«Con naturalezza. Pensavo non potesse capire, e invece ha capito. Mi ha detto: se sei felice, per me va bene. Non credo che lei la pensasse così in partenza – a Torre Annunziata, dove è cresciuta lei, e pure io, la mentalità non è aperta – ma penso che abbia allargato i suoi orizzonti per amore mio. E questo suo mettersi in discussione mi commuove. Dopo pochi anni, anche mia sorella ha fatto coming out».
Quanto c’entra la boxe con questa consapevolezza?
«Molto. Perché grazie alla boxe ho conosciuto il mondo. E ho visto che ci sono posti in cui chi ti piace non importa a nessuno».
Quando ha capito che la boxe era la strada?
«La bellezza di questo sport l’ho sentita subito, proprio sulla pelle. Quando, dopo poco tempo, ho visto che mi avrebbe permesso di lasciare l’ambiente in cui ero cresciuta – che non è la mia famiglia, ma un certo tipo di mentalità – mi sono impegnata tantissimo. Io non volevo diventare una campionessa, volevo cambiare vita».
Che cos’ha trovato, invece, il pugilato, in lei?
«Tanta cazzimma. All’inizio ero arrabbiata, volevo farcela. Chi si metteva tra me e l’obiettivo, lo divoravo. Andavo dritta come un treno. È stata la determinazione a tirare fuori il talento».
Che destino avrebbe avuto se fosse rimasta?
«Questo non posso saperlo, ma posso guardare le mie amiche che non sono andate via. Il loro destino comune è dedicarsi alla famiglia. A me questa cosa non andava giù: io non avevo l’obiettivo di diventare mamma e moglie. Non volevo dimenticarmi di essere una persona indipendente».
Sua madre ha cresciuto lei e i suoi fratelli da sola. Come ha vissuto questo sparigliare le carte?
«Mi ha sempre detto: vai. Per allenarmi sono andata via di casa a 14 anni, ma lei non si è mai preoccupata. Sarebbe stata più preoccupata a sapermi lì, con una vita come la sua. Forse peggiore».
Si è mai sentita sola?
«Sì, qui ad Assisi, dove mi alleno, viviamo tutte in albergo, in mezzo a rapporti che non abbiamo scelto. Siamo insieme perché facciamo lo stesso sport, ma la cosa bella è che siamo tutte nella stessa situazione, quindi ne parliamo serenamente».
C’è qualcosa che vi accomuna?
«Si dice che la cosa strana del pugilato sia che il pugile va incontro al dolore, mentre nella vita il dolore lo schivi sempre. Noi pugili, quindi, qualcosa che ci lega lo dobbiamo avere per forza. Lo raccontano anche le nostre storie personali, che sono tutte incredibili. La boxe tira fuori chi sei e i tuoi fantasmi: quando ti alleni al sacco è come se prendessi a pugni te stessa».
Qual è la sua storia incredibile?
«Essere cresciuta senza un padre, aver visto prima mia madre, e poi mia sorella, fare enormi sacrifici. Mia sorella si era appassionata al pugilato prima di me, ma ha dovuto smettere per andare a lavorare, perché in casa uno stipendio solo non bastava. Era lei a darmi i soldi del treno per venire ad allenarmi con la Nazionale ad Assisi. Non mi ha mai detto niente, ma io mi sento ancora molto in colpa con lei».
Che rapporto ha ora con suo padre?
«Per molti anni non gli ho parlato. Mi mandava messaggi, mi chiamava, e io non rispondevo mai. Ultimamente gli rispondo al telefono, ma solo ogni tanto. Gli do un contentino. Lo faccio per lui, perché, per quanto mi riguarda, se ce l’ho fatta prima, a maggior ragione ce la faccio adesso a stare senza un padre».
Quando sale sul ring ha paura?
«La paura c’è sempre, ma non è quella dei colpi. Dopo anni la sensazione del guantone sulla faccia non ti spaventa più. Quello che a me fa paura è perdere, andare male. Quando combatti, il primo avversario sei tu».
Che cosa si porta tra le corde?
«Se hai voglia di vincere devi portarti tante cose brutte. Io porto tutta la fatica e i sacrifici che ho fatto, ma ognuno ha i suoi pensieri».
Le aspettative degli altri non hanno posto lì sopra?
«Io prima di partire per qualche gara dico sempre: non vi aspettate nulla da me. Dico anche: non vado lì per una medaglia. Naturalmente è una bugia, ma non voglio deludere nessuno. Soprattutto non i miei maestri: il primo, Lucio Zurlo, e l’ultimo, Emanuele Renzini, che per me è stato come e più di un padre. Quando vinci una medaglia la vinci per tante persone».
La boxe è uno sport molto intimo. Che relazione si crea tra due avversari che combattono?
«Con tante colleghe usciamo, ci confidiamo. E poi ci ritroviamo sul ring. È tutto molto naturale: tra le corde siamo avversarie, fuori amiche».
Si ricorda la sua prima sconfitta?
«Ho perso contro una russa bravissima e bellissima. Ho perso, ma mi sentivo come una che ha assistito a un miracolo. È stata una sconfitta che non mi ha fatta rimanere per niente male».
Invece, poi, qualche volta ci è rimasta male?
«Spesso. Soprattutto se perdo per colpa mia».
Ha mai pensato di smettere dopo una sconfitta?
«Dopo l’Olimpiade di Rio. Ho perso con una francese che avevo battuto qualche mese prima. Sul ring lei era arrabbiata. I suoi occhi mi dicevano: tu mi hai sottovalutata e io mi sono sentita umiliata. Mi ha battuta perché dopo quella prima sconfitta era tornata in palestra e si era allenata ogni giorno sugli errori che aveva fatto con me. Questo fa un grande campione. L’ho imparato da lei».
Siamo alla fine di questa intervista importante. Come si sente?
«Sollevata da quello che ho raccontato, perché è come se avessi sempre avuto voglia di dire, alle persone che mi parlavano delle loro storie così uguali alla mia: ti capisco perfettamente, anche io sono come te. Ma non potevo espormi. Adesso se qualcuno avrà voglia di condividere qualcosa con me, io potrò parlare e dire: lo so, lo conosco, l’ho provato».