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 2021  dicembre 04 Sabato calendario

Un museo di Renzo Piano a Mosca. Intervista

Anche nella più plumbea delle giornate dicembrine, Ges-2 riesce nel miracolo di moltiplicare la luce. Quella che un tempo era una tetra centrale elettrica prerivoluzionaria che riforniva di energia il Cremlino e la prima rete tranviaria della capitale russa, dopo sei anni di progettazione e lavori, si è trasformata nel più grande spazio in Russia per l’arte contemporanea. «Molto più di un museo. Un palazzo di cristallo quasi incantato dove si può entrare liberamente. Un mondo strano. Un piccolo miracolo. Una lanterna magica», insiste Renzo Piano che, da grande demiurgo, è riuscito a far scaturire il bello dal grigio e a dare vita a una trasformazione colossale. Una centrale rigenerata per fornire energia alla gente che si erge a due passi dal Cremlino sull’argine sud dell’isola Balchug, incastonata tra due bracci della Moscova. Un progetto sostenibile con pannelli solari, un bosco di betulle e quattro imponenti ciminiere color blu che, invece di sputare fumo, catturano aria pulita e si stagliano nel cielo di Mosca come l’icona di quello che è destinato a diventare un centro di fama mondiale. «In qualche modo rammentano che è questo luogo è speciale». Un’opera resa possibile grazie al magnate del gas e collezionista d’arte Leonid Mikhelson, uno degli uomini più ricchi di Russia che con la gallerista italiana Teresa Iarocci Mavica ha dato vita alla V-A-C Foundation che dopo 12 anni di vita nomade ha finalmente trovato la sua casa moscovita.
Architetto Piano, com’è nato l’incontro con Leonid Mikhelson?
«È venuto a trovarmi nel mio ufficio a Parigi nel 2015. È un ingegnere che ha costruito la sua fortuna piazzando sistemi di perforazione per cercare il gas in Siberia, non è andato molto per il sottile. La sua idea era costruire un posto dove si potessero incontrare diverse discipline e soprattutto dove si potesse incontrare la gente. Una sorta di Beaubourg, ma nel centro di Mosca, dove non avevo mai lavorato prima. E ho accettato. Il sopralluogo a Mosca fu divertente. Guardando l’area dal vicino ponte pedonale, gli dissi che ci serviva più spazio e che doveva comprare anche gli edifici dismessi tutti intorno. “Comprarli per farne cosa?”, mi chiese. “Per demolirli e costruire un bosco di betulle”, risposi. Non disse nulla, ma lo fece. Volevo costruire un quadrato di 150 metri per 150 metri ritagliato su quest’isola artificiale.
Un’isola dove c’è di tutto, in particolare la “Casa del Lungofiume”, un enorme edificio residenziale in cemento destinato originariamente alla nomenklatura sovietica. Creare accanto a esso un bosco di betulle e poi far nascere questa lanterna magica, era un’idea vagamente assurda, ma attraente. EMikhelson l’ha accompagnata».
Com’è riuscito a rendere un edificio quasi nero di caligine qual era Ges-2 in un luogo così luminoso?
«Il segreto di quest’edificio è la luce.
La luce che esce fuori dall’interno quando si sta fuori e la luce che entra dall’esterno quando si sta dentro.
Il tetto è di vetro e sorregge delle cellule fotovoltaiche per catturare l’energia solare leggermente distanziate l’una dall’altra che creano una luce frammentata e vibrante. Soprattutto nel pomeriggio tardo, quell’ora magica che è l’ora di Magritte quando dipingeva i suoi quadri, quando comincia ad apparire la luce artificiale, ma c’è ancora un residuo di luce del giorno. Se si guarda dall’esterno in quell’ora lì, l’edificio è una presenza quasi assurda in questa città. Una grande cattedrale di luce, una fabbrica bianca e luminosa che mi auguro nel futuro di Mosca continui a produrre una sorta di energia, quella dello stare insieme».
Presentando Ges-2, Teresa Mavica ha ricordato l’idea delle Casa della cultura e delle “Narodnyj dom”, le Case del popolo di sovietica memoria.
«La Casa della cultura è un’idea storica. In Francia fu André Malraux, ministro della Cultura fino al Sessantotto, a proporre che tutte le città dovessero averne una.
Beaubourg era figlio di quell’idea di mescolare più arti tenendole insieme all’arte sociale dello stare insieme. E anche dentro Ges-2 c’è quell’idea di casa di tutti e trovo che nel contenuto ci sia del coraggio che va al di là di tutto».
Cinquant’anni dopo il Beaubourg, continua a lavorare intorno a questa visione...
«È la mia visione della cultura.
Cultura con la “c” minuscola, non riservata a pochi eletti, ma che appartiene a tutti. Costruire questi edifici significa creare luoghi dove la gente attinge alla stessa fonte, un concerto, una mostra, un film, una biblioteca, condivide dei valori e scopre la bellezza dello stare insieme e del fare cose insieme. La forza dello stare insieme è straordinaria e mi sono ritrovato a celebrarla prima con il Beaubourg, poi con il Whitney di New York e, più recentemente, con l’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles. Come Ges-2, sono tutti edifici che in qualche maniera danno forma all’idea che la città è civiltà e deve avere luoghi di incontro. L’architetto da una parte dev’essere un costruttore nel senso più nobile della parola, ma al tempo stesso deve inevitabilmente avere un’ansia per il sociale. Ma, oltre a questo aspetto umanistico e a quello tecnico del costruttore, c’è un terzo che mi sembra qui sia stato centrato».
Quale?
«È l’idea di costruire un luogo di magia. Ed è l’aspetto più poetico e imprendibile. L’architettura a modo suo deve commuovere, creare emozione, altrimenti non funziona.
Non basta una forma ben costruita, ci vuole anche qualcosa che tocchi le corde profonde, qualcosa che vada un po’ più in giù, quella cosa che il principe Mishkin nell’Idiota di Dostoevskij chiamava “bellezza”. La bellezza di Ges-2 è dovuta alle trasparenze, ai piani multipli, alla leggerezza, alla luce che viene dall’alto, alla magia delle betulle, belle d’inverno perché sono spoglie, ma con la neve diventano dei merletti, e belle d’estate perché la vibrazione delle loro foglie leggere e sottili assomiglia alla vibrazione della luce dentro. Un miracolo. E i miracoli non accadono mai da soli.
Avvengono perché i pianeti si allineano. C’è un momento in cui succede. Mi è successo altrove e ho avuto la fortuna che sia successo anche qui…».
Come ha affrontato la sfida di rinnovare la vecchia centrale
rispettandone la storia?
«Fa parte della grande tradizione umanista costruire sul costruito, trasformare senza distruggere. Si è trattato di un’opera di rammendo straordinaria. La struttura è rimasta la stessa, l’abbiamo solo rafforzata.
Invece di cementificare, abbiamo alleggerito. Abbiamo anche inglobato le prime distillerie della vodka Smirnoff dalle bellissime volte. E abbiamo rivisitato le quattro grandi ciminiere. Non buttano più fuori fumo, ma catturano aria pulita a 70 metri di altezza che usiamo per ventilare l’edificio. Le abbiamo demolite, ridisegnate e dipinte di un bellissimo “blu Matisse” che si staglia nel cielo di Mosca come un simbolo di una cosa che c’è sempre stata, ma che ora vive una nuova vita».
È di fatto il culmine di un rinnovamento urbano che nell’arco di pochi anni ha cambiato volto alla megalopoli post-sovietica. Qualcuno sostiene che l’abbia omologata ad altre capitali europee distruggendone il miscellaneo carattere originale. Lei che cosa ne pensa?
«È difficile giudicare. L’architettura vive di tempi lunghi come i boschi di betulle, come i fiumi, come le foreste. Mosca vive questa trasformazione solo da pochi anni.
Ed è una trasformazione meno visibile di quelle avvenute altrove.
Ges-2 è uno dei momenti di questa trasformazione. È una trasformazione di opposti. Da un lato c’è il palazzone dei burocrati del Cremlino, dall’altro questa cosa fragilissima che ritaglia un quadrato di Malevi? in mezzo alla città, un quadrato intoccabile che diventa un quadrato di scambi sociali e di apertura. In qualche maniera questo palazzo di luce è un palazzo di trasparenza».
C’è un riferimento alla “glasnost”? Vuole anche mandare un segnale nella Russia odierna?
«C’è, ma non è vissuto in maniera ideologica, semmai in maniera più poetica, quindi più penetrante. Non faccio politica, ma è indubbio che l’architettura sia l’arte della polis, della trasformazione della città.
Ges-2 va ben al di là della costruzione di un centro culturale, è un gesto importante dal punto di vista politico nel senso nobile della parola polis ».
C’è chi si chiede se abbia senso creare un centro di cultura in un Paese dove la repressione si fa sempre più pesante?
«Sì, si fa perché è giusto farlo. Ho appena finito di costruire un ospedale d’eccellenza voluto dal mio caro amico che purtroppo non c’è più, Gino Strada, nel posto più improbabile al mondo, sul Lago Vittoria in Uganda, in mezzo al nulla. E stiamo completando un museo nel centro di Istanbul. Si fanno queste cose perché è giusto farle ed è più giusto farle a Mosca, a Entebbe o a Istanbul che altrove, perché è un segnale di grandissima importanza. Quando presentammo il progetto di Ges-2, la gente non ci credeva, ma il lavoro dell’architetto è quello di progettare, ossia portare avanti una funzione e, se non c’è questa forza utopistica, non si va da nessuna parte. Un architetto getta ponti non solo reali, ma anche metaforici. E quando getta un ponte fa un gesto coraggioso che richiede ottimismo. Costruire è un grandioso gesto di pace».