Corriere della Sera, 3 dicembre 2021
Intervista a Max Biaggi
M ax Biaggi, anni 50, chilometri orari 455,7, record mondiale di velocità con una moto elettrica, la Voxan, a Cape Canaveral, in Florida. Commentando il ritiro di Valentino disse: «Con lui si ritira anche una parte di me». Dunque, quale parte si è ritirata?
«Si è ritirata la parte votata alla competizione, alla bagarre con gli avversari in pista, con tutto ciò che comporta: pressione, stress emotivo da Motomondiale. Però il desiderio di avere a che fare con l’adrenalina è rimasto e questo progetto unico ed estremo ha riacceso la miccia, ha riattivato una passione dormiente. Sono rimasto conquistato dall’idea di Gildo Pastor, presidente del Gruppo Venturi, che da zero ha creato un mezzo a due ruote capace di raggiungere velocità supersoniche».
Coraggio, nervi, testa. Cosa serve per stare in sella ad un siluro del genere?
«Quando mi proposero questa sfida, due anni fa, non pensavo affatto che una moto a propulsione elettrica potesse viaggiare tanto forte. La mia scala di valori era fatta di motori tradizionali con un tot di cavalli e un suono conseguente. Quindi si tratta di una esperienza inattesa e diversa che richiede una attitudine specifica per filare su tratti rettilinei».
Siamo ad una completa conversione all’elettrico?
«Ma no, si tratta di una sperimentazione finalizzata ad ottenere un primato assoluto. Da qui ad ipotizzare una mobilità elettrica ce ne vuole. È presto, anche pensando alle competizioni».
Il soprannome «Corsaro» come nacque?
«Fu una idea di Matilde Tomagnini, brand manager dello sponsor principale di Aprilia quando cominciai a correre per loro. Mi scelse, decise di dipingere la moto di nero, una cosa mai vista, abbinando quel colore al mio atteggiamento aggressivo e temerario in pista. Arrembante, ecco. Da lì, venne fuori il soprannome che fu subito adottato dalla stampa e dai tifosi».
Non solo aggressività, talento. Portava in pista anche una sofferenza intima e nascosta, dovuta alle sue vicende famigliari, all’abbandono da parte di sua madre quando era un adolescente. Se la sente di parlarne?
«Allora..., beh, certo, quello fu un avvenimento importante ma penso che la moto e tutto ciò che riguardava questo mondo divennero il rifugio perfetto per non pensare ad altro. Ho dato anima e corpo alle corse, anche perché dovevo recuperare anni di formazione perduti, non avevo potuto seguire la trafila solita, dalle minimoto in su. Mi sono perso una parte di vita da atleta lunga dai 7 ai 18 anni di età e sono stato costretto ad imparare a comportarmi da professionista molto in fretta».
Suo padre, Pietro, scomparso nel 2019 l’ha allevata, l’ha accompagnata sempre. La vera benzina veniva da lui?
«Totalmente. Mi è stato vicino in ogni momento, gara dopo gara, sin dagli esordi, senza essere mai invadente. Per me era fonte di tranquillità vederlo nei miei pressi, anche per un solo minuto, magari bastava una occhiata nel paddock. Uno sguardo, una parola e avevo rifatto il pieno».
Incidenti e morti. Il prezzo del Motomondiale è troppo alto?
«Non credo esista una formula capace di rendere meno pericoloso il motociclismo. Molto è stato fatto, rispetto ai tempi di Giacomo Agostini ma spesso non c’è ritorno, solo andata. Hanno fatto bene ad alzare l’età dei debuttanti. Un pizzico di esperienza in più può essere utile per ridurre gli errori e quindi gli incidenti».
Due figli, Ines, dodici anni e Leon, undici. Che idea si sono fatti del loro papà?
«Delle moto non sanno granché, non seguono le gare. Hanno altri interessi, anche se inevitabilmente qualche amico o un insegnante domandano, vogliono una foto, un piccolo cimelio, cose del genere. Penso di essere un padre premuroso, anche se sono in viaggio spesso per lavoro riesco a stare con loro 10 o 12 giorni ogni mese, grazie anche all’ottimo rapporto che ho con la loro mamma, Eleonora (Pedron, ndr). Ho rinunciato a babysitter e assistenti, preferisco fare da solo, pur non sapendo bene come, talvolta. Ho imparato. Cucino, li assisto nei compiti, li sistemo prima di uscire, sono convinto che questo modo di stare insieme migliori la qualità del rapporto. E produce gioia da condividere».
Poi, curiosamente, c’è un secondo Leon, figlio della sua compagna Francesca Semenza. Come funziona la famiglia allargata?
«Beh, funziona. Facciamo del nostro meglio. Anche se con i bambini non ci incontriamo quasi mai, io vivo a Montecarlo, lei a Milano».
Ha chiuso la carriera agonistica alla fine del 2012 dopo 21 stagioni di gare, tra Motomondiale e Superbike. Rimpianti?
«Nessuno. È stato bello e appassionante sempre. Al termine del 2005 non ero del tutto convinto di passare alla Superbike, mi presi un anno di tempo rinunciando a due proposte molto vantaggiose sia per restare in MotoGp con il team Ducati Pramac, sia per passare subito in Superbike con Honda. È che desideravo mantenere un livello alto, restare protagonista, e una parte di me stesso chiedeva una pausa prima di ricominciare a correre. Fu una buona scelta, vinsi due mondiali una volta tornato in pista».
Il bilancio presenta sei titoli vinti, quattro consecutivi nel Motomondiale, classe 250, due in Superbike. Cosa trova nei ricordi più intensi?
«Alti e bassi, come capita ad ogni campione. I ricordi più belli riguardano le battaglie durante le gare, quelle dei primi anni con Harada, Waldmann, Jacque, Capirossi e quelle della seconda fase contro Valentino, Roberts, Doohan. Molti avversari importanti, anche se da noi vengono ricordati soltanto i duelli con Rossi».
Ecco, appunto. Incrociare il proprio destino con quello di Valentino, pensandoci ora, è stato un handicap o una fortuna?
«Mah... è accaduto, semplicemente. Una fase della mia carriera è coincisa con una fase della sua. Ci siamo trovati vicini. Non è possibile gestire completamente il proprio percorso e non mi pare giusto star qui ora a giudicare ciò che accadde. Penso che l’incrocio abbia offerto giorni belli e giorni brutti e comunque per me si tratta di un ricordo più positivo che negativo».
Non si trattò di un semplice dualismo. Un romano contro l’intera Riviera Adriatica. Si sentì una minoranza non tutelata?
«Non mi piace fare polemiche, anche perché lo sport insegna tante cose, mostra errori da non ripetere. Piuttosto, c’è una cosa da dire: per me, cresciuto a Roma, è stato più complicato emergere e affermarmi, non appartenevo ad un’area geografica propizia e questo mi ha formato, mi ha dato, se possibile, più forza».
Nel 2016 ha fondato un team per far correre giovani piloti nella Moto3. Qual è il consiglio più prezioso da trasmettere ad un ragazzo che comincia?
«Ho fondato il team per competere al livello più alto possibile. Nulla di comparabile con quanto ha fatto Valentino o fanno altri nelle academy. Noi cerchiamo la prestazione e se c’è un giovane promettente da lanciare, tanto meglio. Però non ho l’ambizione di fare scuola, è qualcosa che viene già fatto da altri. Nel 2022 correrà con noi un anziano della Moto3, John McPhee reduce da una stagione disastrosa. Mi piacerebbe rilanciarlo, rimetterlo in carreggiata, come è accaduto con Romano Fenati quest’anno».
Un incidente spaventoso durante un test a Latina, nel 2017. La paura a cosa serve?
«È sempre una alleata di chi fa questo mestiere, qualche volta si affaccia e rema contro. Quell’incidente avvenne a meno di 50 orari. Paura, altroché. Non al momento dell’impatto, più tardi quando i medici in ospedale dissero che nelle mie condizioni l’ipotesi di sopravvivenza era ridotto al 20% dei casi. Citavano statistiche tremende mentre rivedevo in una frazione di secondo il film intero della mia vita. Sino a quel momento ero convinto di poter far fronte ad ogni avversità usando determinazione e fortuna. A furia di rischiare in pista credi di essere una specie di supereroe che si batte senza impedimenti, anche mezzo fratturato o dolorante. Beh, fu come prendere un cazzotto da k.o. Diciannove giorni in rianimazione. E sino a quando mi comunicarono di essere fuori pericolo rimasi sospeso in un vuoto. Impotenza e paura, sì. Mai successo nulla di simile».
Sta per uscire il film su Simoncelli. Quali fotogrammi conserva del Sic?
«Venne a correre in Superbike a Imola, come wild card. Lo conobbi veramente allora e fu un bellissimo incontro. Era scanzonato, molto simpatico, andammo d’accordo subito. Viaggiava sempre a tutta... se ben ricordo cadde tre volte in tre giorni e chi corre in moto sa che le cadute sono da evitare il più possibile. Anche se insegnano tante cose».
Ha stabilito il record mondiale di velocità su moto elettrica. Un ultimo capitolo o solo un ennesimo limite da abbattere?
il cazzotto del k.o.
«Il mio progetto primario riguarda il team di Moto3 impegnato nel Motomondiale. È il vero lavoro, gara per gara, dodici mesi l’anno. Ho conservato il ruolo di ambasciatore Aprilia che mi impegna durante l’anno in una serie di eventi con clienti e appassionati. Poi, per non farmi mancare niente ho accettato questo impegno con la moto elettrica. In definitiva non richiede molto tempo: quattro test all’anno e un tentativo di record. Però non credo sia possibile inoltrarsi oltre. Ci siamo spinti nei pressi dei 500 chilometri orari. Anche per un pilota abituato a viaggiare oltre i 300 fa impressione, l’occhio umano non percepisce più le immagini nitidamente, la vista si riempie di pixel. Guardi in avanti ma non vedi più come servirebbe. La tuta, pur essendo aderente al massimo, comincia a vibrare, brucia, ustiona la pelle. Questo è davvero limite estremo».