Corriere della Sera, 3 dicembre 2021
Claudio Martelli ricorda le presidenziali del 1992
«Andreotti cominciò a parlare e disse: “Davanti alla candidatura di Forlani io mi sono fatto doverosamente da parte, ma ora che è tramontata non credo sia ingiustificata la mia”. Io pensai tra me: Ma la candidatura di Forlani l’hai fatta tramontare tu, con i tuoi franchi tiratori…».
Fu un dialogo franco ma pieno di «non detti» quello tra Giulio Andreotti e Claudio Martelli, il pomeriggio del 23 maggio 1992, in una stanza del gruppo democristiano a Montecitorio; il primo capo del governo con l’aspirazione di diventare presidente della Repubblica, l’altro vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia, nonché – in quei giorni – ambasciatore del segretario socialista Bettino Craxi nelle trattative per l’elezione del nuovo capo dello Stato.
Qualche cecchino contro Forlani c’era stato anche nel Psi.
«È vero, la sinistra di Claudio Signorile e, in misura minore, gli amici di Rino Formica; ma il ruolo preponderante per affossare il segretario della Dc l’avevano giocato proprio gli andreottiani, con la regia di Palo Cirino Pomicino».
Nemmeno questo disse ad Andreotti?
«No, andai al merito della questione. Gli spiegai che non eravamo in grado di garantirgli la compattezza dei socialisti, per via di vecchie frizioni risalenti al periodo dell’unità nazionale e al caso Moro».
E Andreotti?
«Rispose che non vedeva il motivo di tanta contrarietà, i tempi erano cambiati e lui era stato sempre leale con noi, anche da ministro degli esteri nel governo Craxi, durante la crisi di Sigonella con gli americani e in tante altre occasioni. Fu in quel momento che squillò il telefono, e lui s’interruppe per rispondere».
Chi era?
«Non lo so, ma dopo qualche attimo coprì il microfono della cornetta con la mano e mi disse “C’è stato un attentato a Falcone, ma sembra sia incolume”. Io mi alzai immediatamente e lui con lo sguardo mi chiese: “Dove vai?”. Vado a vedere, risposi e Andreotti, dopo un attimo di esitazione, disse “vai, vai”. Cercai il ministro dell’Interno Scotti, e con Gerardo Chiaromonte presidente dell’Antimafia raggiungemmo Palermo».
Il suo ruolo nelle trattative per il Quirinale finì il quel momento?
«Sì, come la candidatura di Andreotti che in realtà non aveva sbocchi indipendentemente dalla strage di Capaci».
Aveva inciso l’omicidio del suo referente in Sicilia, Salvo Lima, ucciso dalla mafia due mesi prima?
«In parte sì, la mafia colpì Lima anche per colpire Andreotti. Ma quando uccisero Falcone i mafiosi erano concentrati su di lui, non su Andreotti; avevano tolto di mezzo l’uomo della mediazione e in campo erano rimasti loro e lo Stato, rappresentato da Falcone, da me che lo avevo chiamato al ministero della Giustizia e da Scotti ministro degli Interni».
Quindi sulla scelta di Scalfaro eletto capo dello Stato all’indomani della strage di Capaci lei non mise bocca?
«No, ma bocciati Forlani e Andreotti e scartati i laici, restavano due nomi, il suo e quello di Martinazzoli. Scalfaro era appena stato eletto presidente della Camera, dunque aveva già una potenziale maggioranza».
E la precedente bocciatura di Forlani come andò?
«La sua candidatura fu decisa in una cena a casa di Antonio Gava (in quel momento senza incarichi ufficiali, ma leader della maggioritaria corrente dorotea, ndr), alla vigilia delle votazioni. Alla cena partecipammo Craxi, Forlani e io. La tv trasmetteva una regata del “Moro di Venezia”, Forlani seguitò a guardarla finché non ci chiamarono per mangiare le orecchiette pugliesi. Forlani era riluttante ad andare al Quirinale, non è mai stato un uomo ambizioso, e disse “Andreotti ci tiene, perché non votiamo lui?”. Gava e Craxi mi invitarono a rispondere e io spiegai che non potevano garantirne l’elezione. Gava fu soddisfatto, e a quel punto Forlani si lasciò convincere. Poi è andata com’è andata».
Non avevate calcolato i franchi tiratori?
«Il rischio c’era, ma contavamo di riuscire comunque a raggiungere la maggioranza».
E Craxi? Non voleva salire lui sul Colle?
«Questa speranza l’avevo nutrita io quando sembrava si potesse aprire col Pds di Occhetto un “ciclo nuovo”, ma poi D’Alema, che a me aveva detto il contrario in un pranzo al ristorante Antica pesa, sotto casa mia, si mise di traverso. A quel punto Bettino voleva tornare premier con la Dc dunque doveva cedere il Quirinale».
Che non ci fu.
«Nella decisione di Scalfaro di non dargli l’incarico ha influito l’inchiesta Mani Pulite che stava montando proprio in quelle settimane e si arrivò a Giuliano Amato».
Si narra che fu lei a proporsi col neo-presidente, insieme al ministro dell’Interno Scotti.
«È un falso smentito cento volte. La verità è che sul decreto antimafia varato all’indomani della strage di Capaci erano trapelate perplessità del Quirinale, così con Scotti chiedemmo udienza per chiarirne il contenuto al presidente. Era la prima volta che lo vedevo, e nell’incontro Scalfaro non affrontò proprio l’argomento; parlò solo del governo da affidare ai socialisti, della “campagna diabolica contro Craxi» poi parlò di Amato, di quel simpatico “capellone” di De Michelis e di Martelli. Al momento dei saluti ribadì la sua angoscia e io feci la battuta: “Presidente se proprio non riesce a farlo, lo facciamo noi un governo”. Pochi minuti dopo mi chiama Marco Pannella: “Guarda che Scalfaro ti sta facendo uno scherzo da prete dice che ti sei candidato al posto di Craxi”. Cercai Craxi che se la prese con me, senza capire che la Dc aveva già deciso di non mandarlo a palazzo Chigi e che Scalfaro mi aveva usato come alibi per non dirglielo in faccia».