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 2021  dicembre 03 Venerdì calendario

La parabola di Messias


GOZZANO (NOVARA) – Oggi il lago sembra un mare addormentato. Il borgo di Pella è un riflesso nell’acqua davanti all’Isola di San Giulio, l’antico angolo delle lavandaie e delle tessiture della canapa, le migliori lenzuola al mondo, sissignori. Quando Messias era Junior venne a chiudere qui, giocando nel Gozzano, la sua quarta vita piemontese che ha preparato le altre, il Crotone, il Milan, la Champions, tutti questi gol precipitati dall’inaudito mondo operaio e migrante. Ma per capire la quarta vita e le onde, bisogna tornare a Torino e guardare bene da vicino le prime tre.
Al numero 63 di corso Palermo c’è una casa grigia e marròn, senza un balcone uguale all’altro, tutti stranieri i nomi sui campanelli. Lui abitava qui. Siamo in Barriera di Milano, periferia residuale, promessa elettorale mai mantenuta. Qui si muove Contrera, l’investigatore irregolare inventato da Christian Frascella. Torino così viva proprio dove sembra perduta. Quando Messias era Junior, il suo migliore amico si chiamava Amaro Iatanderson, brasiliano come lui e come lui sognatore di calcio. Li avesse conosciuti Galeano. Oggi Amaro è sorvegliante alla Reale Mutua. «Io e Junior giocavamo nel Brasile al Balon Mundial, il mondiale dei migranti dell’Uisp. Il campo era alla Colletta, vicino al cimitero. Primo gol di Junior: stop e sinistro nell’angolo, in diagonale. Beveva. Gli dicevo: ragazzo, vuoi bruciare così la tua vita? Lo chiamavo “juvenìl” che vuol dire sbarbatello. Giocammo contro il Senegal che in attacco aveva Mbaye Diagne, oggi al Galatasaray. Io sono stato al Grasshopper, in Svizzera, ma mica ero forte come Junior. Nel 2013 scappò in Brasile, aveva mollato tutto, il permesso di soggiorno non arrivava mai. Lo convincemmo a tornare, fu un miracolo». Gli diede lavoro Oscar Arturo Vargas, peruviano con una ditta di trasporti a Torino. Dice: «Ah, Junior, che fenomeno e che persona squisita. Ancora mi chiama per gli auguri di compleanno e mi chiede come va capo, come stai capo. Portava i frigoriferi sulla schiena, facevamo traslochi, Junior puliva anche i mattoni delle demolizioni con suo fratello muratore, 20 centesimi a pezzo. Gli ripetevo: in campo non cazzeggiare, impegnati! Aveva paura di non rispettare il Signore, non voleva diventare un campione ma lo era già. Aveva perso il coraggio. Io gli dicevo che l’anima bisogna ricaricarla come un telefonino, come la batteria del furgone. Anche suo fratello Douglas detto Bazooka era un attaccante molto forte». Invece la seconda vita di Junior non ancora Messias deve tutto a Ezio Rossi, l’ex del Toro che lo portò al Casale, nella città dei morti dell’Eternit e dello scudetto del 1914. I leggendari nerostellati e il tanto nero dell’esistenza. «Lo vidi giocare al torneo Uisp contro il Survivor, la squadra dei rifugiati. Un fenomeno. Lessi il suo nome sulla maglia, Junior, e gli raccontai che io con un certo Leo Junior avevo giocato: era allibito, non ci credeva. Ci vedevamo in qualche bar dopo che lui aveva smesso di lavorare, alla fine riuscii a portarlo al Casale e dopo tre giorni dissi al presidente: fagli un contratto e dagli almeno 1500 euro al mese, così smette di sgobbare da facchino e può pensare al pallone. Vincemmo il campionato Eccellenza e andammo in D. Resistenza e velocità insieme: prima di lui, così, avevo visto solo Lentini. Faceva l’esterno sinistro d’attacco. Era un atleta di Cristo, una specie di diacono, molto timido e devoto alla moglie Tamy e ai suoi bambini Emanuel e Miguel. Lo hanno aiutato tantissimo i peruviani di Torino in quella squadra, la Sport Warique, dove Junior aveva bisogno di amicizia per riprendersi i sogni. Prima avevo anche provato a portarlo al Fossano, ma lui non voleva rischiare di perdere il posto di lavoro. A volte sembrava arreso, la burocrazia lo sfiniva. Mi diceva: per il calcio ho mangiato riso e sassi, Lo consigliai a qualche amico al Genoa, all’Atalanta e al Toro, invano».
Quando Messias era Junior, andò poi a giocare nel Chieri. Terza vita, serie D. Si scavalla la collina torinese oltre il Pino e Superga e si attraversano i vigneti del Freisa, verso una pianura morbida di prati e capannoni. Scende la prima nebbia, taglia la faccia. «Junior veniva col treno, una mezz’ora da Porta Nuova. Andavamo a prenderlo in stazione». Vincenzo Manzo è il suo vecchio allenatore. Parla e intanto guarda i ragazzini del Chieri che sgambano, le magliette celesti. «A volte Junior arrivava al campo dopo dodici ore di lavoro e niente pranzo, magari si era fatto un trasloco al settimo piano senza ascensore e poi via a giocare. Io lo sapevo che poteva arrivare in A, anche se lo status di extracomunitario lo penalizzava di brutto. Quando finalmente fu promosso in serie C col Gozzano, il suo status cambiò e la sua carriera pure: a quel punto poteva essere tesserato in B. Ricordo un ragazzo chiuso e buono, virtuoso col pallone ma un po’ fragile dentro. Ci lavorammo anche con lo psicologo ed ecco il risultato. Una meraviglia, direi».
Pure il Lago d’Orta è una meraviglia, alla fine della storia che invece al Gozzano stava solo cominciando. Il professionismo dopo i mattoni, i pianerottoli, i camioncini, il treno che fa tutte le fermate dondolando nella sera. «Per noi era un esempio, i suoi sacrifici ci hanno insegnato a crescere». Riccardo Gemelli di quella squadra era il capitano. Sembra passato un mondo, a pensarci ora. Junior aveva già smesso di bere. Uscì di strada di ritorno dal matrimonio di Bazooka, vide la morte negli occhi e tutto cambiò. Anche il terrore dell’aereo svanì, insieme alla paura di un dio che s’incollerisce con chi non lo ama abbastanza. «Io dico che la sua favola se l’è meritata tutta». Fabrizio Leonardi è il presidente dei ragazzi del lago. Racconta che il sorriso di Junior non si dimentica, e neanche la gentilezza.