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 2021  dicembre 03 Venerdì calendario

Speranza Scappucci, la prima italiana con la Filarmonica


Dirige nei principali teatri del mondo, ma è il suo debutto con la Filarmonica della Scala ad assumere un significato davvero speciale. Dal 2 maggio, Speranza Scappucci ritaglia tre appuntamenti nella stagione sinfonica e l’occasione segna dunque un traguardo indiscutibile, sul piano dei diritti e del costume sociale. Una svolta, dove fino ad oggi erano transitate solo bacchette straniere (la francese Gibault, la finlandese Mälkki, l’americana Alsop e la cinese Zhang) mentre all’estero almeno fino al Duemila, grandi complessi come i Wiener e i Berliner osteggiavano persino le strumentiste virtuose sui leggii. E un bel riconoscimento per lei, 48enne, romana, uscita dalla Juilliard School e cresciuta da collaboratrice di star del podio come James Levine, Seiji Ozawa e Riccardo Muti. Con una carriera decollata nel 2017 al timone dell’Opéra Royal de Wallonie di Liegi, in Belgio, dove però resterà per sua stessa decisione soltanto fino a giugno del 2022.
Cosa vuol dire per lei questo concerto scaligero?
«Un passaggio importante di cui sono orgogliosa, che mi carica di un’enorme responsabilità. La Scala resta un traguardo per chiunque e io, prima di diventare assistente dei maestri sul podio ho già compiuto un lungo percorso da maestra collaboratrice e pianista nei teatri d’opera. Ma è essenziale arrivarci al momento giusto, per me adesso».
Si è mai sentita sotto esame in quanto donna?
«Sentirmi sotto esame è una sensazione che provi sempre quando ti trovi davanti a orchestrali, cantanti sulla scena e ascoltatori in sala. Devi concertare, dare la tua visione della musica, e questo può piacere o non piacere. Ma l’essere donna non c’entra nulla, l’essenziale è la serietà, la scrupolosità del tuo percorso personale».
Eppure da noi ci sono ancora resistenze e vani pregiudizi.
«Sempre meno. C’è un forte cambiamento e una vistosa apertura nei teatri lirici, rispetto al passato.
Certo, bisogna aspettare la nuova generazione di giovani donne che si sta preparando adesso e i risultati li vedremo fra qualche anno».
Che ricordi ha della sua infatuazione per il pentagramma?
«Ho iniziato a studiare pianoforte a 4 anni e mezzo, a Roma, perché al piano di sotto viveva un’insegnante che dava lezioni private. Poi sono andata in Conservatorio, stimolata da maestri formidabili come Perticaroli, Di Cesare e Cerroni. La sera i genitori mi portavano a vedere le opere liriche e quindi da ragazza ho iniziato a frequentare i concerti all’Auditorium della Conciliazione.
Ma la svolta vera è stata quando, a 19 anni, mi hanno preso da pianista alla Juilliard e ho iniziato a studiare anche musica da camera, pratica corale e composizione, oltre a come far respirare bene un cantante».
La sua singolarità, rispetto ad altre bacchette, è di arrivare dal basso, dopo un lavoro di maestro collaboratore.
«Sì, un vantaggio enorme. Quando ho debuttato a Los Angeles in
Bohème avevo già in mente come trasferire in orchestra le sonorità provate regolarmente al pianoforte con i cantanti. Una visione della partitura diversa, aperta e totale».
Cosa ha imparato di più dirigendo all’estero?
«Il lavoro di squadra. Bisogna sempre arrivare in teatro fin dalla prima prova e discutere le soluzioni con la produzione di scena, perché direzione e regia non sono realtà separate. E ancor di più nel repertorio ottocentesco è fondamentale mettere insieme i puzzle dello spettacolo. Certo, col tempo impari ad essere flessibile, e me piace proprio fare di tutto: Mozart e Rossini, Verdi, Puccini e il verismo, il teatro francese e quello russo (ho appena fatto l’ Onegin ). A Liegi ho lavorato bene, ma ho scelto di non rinnovare il contratto. Per il Covid molte produzioni estere sono state riprogrammate fino al 2025 e la mia agenda era già strapiena».
Alla Scala che programma ha deciso di impaginare?
«Ci sarà un doppio omaggio alla musica di casa nostra, con l’ Italiana di Mendelssohn e u n’ Ouverture di Schubert carica di temi rossiniani.
Poi al centro svetta la Sinfonia concertante di Mozart, dove sono coinvolti i quattro solisti dell’orchestra (oboe, clarinetto, corno e fagotto) con melodie che sembrano proprio arie d’opera».