la Repubblica, 3 dicembre 2021
Intervista a Riccardo Chailly
Qualcosa, forse, sta cambiando davvero: è in modo pieno e compiuto, finalmente, che a Milano si torna a celebrare il rito di Sant’Ambrogio alla Scala. Grazie a un nuovo Macbeth, pronto al debutto il 7 dicembre, la lirica risorge con trionfale interezza, ovvero senza malinconiche platee a scacchiera, né orchestrali e coristi obbligati ad un’anti-musicale distanza. Stavolta il compito di aprire la stagione del più verdiano e prestigioso teatro del mondo tocca al magnetico titolo di Verdi ispirato a Shakespeare, metafora vigorosa e intramontabile dei delitti perpetrati a causa della brama di potere.
L’evento dell’apertura di stagione alla Scala è sempre attesissimo, fondato su una pluridecennale tradizione. Più che mai lo è adesso, «trattandosi della prima, autentica inaugurazione post-pandemica», sottolinea il direttore musicale del teatro Riccardo Chailly, che condurrà l’impresa dal podio.
«L’ultima prova con l’orchestra collocata nel golfo mistico avvenne a fine febbraio del 2020, e dopo chiudemmo i battenti per via del lockdown», rammenta. «Il 7 dicembre dell’anno scorso ci fu un’inaugurazione d’emergenza, con un gala solo televisivo formato da una scelta di arie operistiche a cui aderirono grandi cantanti.
L’orchestra si adeguò alla successione degli stili in maniera straordinaria, ma la fatica fu enorme per tutti».
Per una Salome che, tra un rinvio e l’altro, è stata presentata qualche mese fa, lo spazio interno del teatro subì grosse trasformazioni, con l’orchestra posta sopra la platea e certe incongrue lontananze tra gli strumenti. È vero che di recente la Scala ha accolto un ottimo Barbiere di Siviglia, ma qui l’organico era cameristico, ridotto. Invece in
Macbeth l’orchestra si dispiegherà in tutta la sua energia sonora, annuncia Chailly, sostenendo che «è tempo di ritrovare una dimensione imponente del suono e di rinascere dopo uno stallo che ci è sembrato eterno. L’impegno è tanto poiché bisogna riabituarsi alla nostra acustica più naturale. Ma prevalgono la gioia e l’emozione di riprendere a lavorare in condizioni giuste. Il distanziamento andava contro la necessità dell’ascolto reciproco in orchestra».
Maestro, ci parli del cast di questo “Macbeth” e dell’organico.
«Il gruppo di cantanti principali è un poker di assi. Luca Salsi ha il ruolo del titolo, Anna Netrebko è Lady Macbeth, Francesco Meli è Macduff e Ildar Abdrazakov è Banco. Il coro è una presenza chiave, molto massiccia. In orchestra ci sono circa 74 strumenti. Se si pensa che il Macbeth coinvolge di solito un’ottantina di elementi, la riduzione è minima. Dell’opera ho adottato la seconda versione di Parigi del 1865, che include i ballabili e la morte di Macbeth prima del coro finale. Il ballo è un’irrinunciabile pagina strumentale. Per lo studio della partitura mi sono basato sull’edizione critica di David Lawton, in grado d’imprimere chiarezza in ogni dettaglio alla comprensione della scrittura di Verdi».
L’allestimento super tecnologico intreccia il linguaggio teatrale e quello filmico, con l’esito di una pluridimensionalità.
«La regia è firmata da Davide Livermore, con il quale lavoro per la quinta volta. La sua visione di Macbeth è catturante e molto moderna, ma non prevede riferimenti storici di tipo ambientale. L’azione è immersa in un Novecento distopico».
Sappiamo che lei, Maestro, conosce bene quest’opera.
«L’ho diretta più di trent’anni fa in occasione di un film di Claude D’Anna. Nel cast c’erano Leo Nucci, Shirley Verrett, Samuel Ramey e Veriano Luchetti. Negli anni Settanta, da ragazzo, avevo seguito le prove del montaggio di Macbeth alla Scala, con la direzione di Claudio Abbado e la regia di Giorgio Strehler. Esperienza interpretativa che ho interiorizzato ed è riaffiorata lavorando al film di D’Anna. Poi ho affrontato Macbeth in versione teatrale nell’84 al Festival di Salisburgo. Lo spettacolo era di Pietro Faggioni e i formidabili interpreti erano Piero Capuccilli, Ghena Dimitrova, Nicolai Ghiaurov e Luis Lima. Dunque in effetti ho esplorato a lungo quest’opera, che considero un traguardo nella fase della gioventù di Verdi».
In che senso?
«La sua musica si proietta in periodi successivi dell’arte verdiana: nella partitura ho identificato undici richiami a Otello, composta ventidue anni dopo. Con Macbeth termina il ciclo che ho proposto alla Scala sulla prima parte della produzione di Verdi. Dopo Giovanna D’Arco e Attila, completo il trittico giovanile con l’opera migliore fra le tre. Macbeth è infatti un capolavoro assoluto, caratterizzato da una fisionomia profetica. A volte assume tinte novecentesche dal punto di vista timbrico, e sul versante armonico, in certi passaggi, può ricordare Gustav Mahler. Teatralmente la sua grandezza consiste in un succedersi incalzante di colpi di scena. La massima vertigine emerge nella scena del sonnambulismo della Lady, di temperatura ultraterrena».
Per questo “Macbeth” lei conta
su un protagonista di splendide qualità verdiane come Luca Salsi.
«Ha le caratteristiche proprie del baritono nelle opere di Verdi: la sua potenza vocale è unita a una capacità di scavo nella parola. Con un artista come lui, è possibile l’inserimento della scena finale dell’edizione del 1847, sulle parole “Mal per me che m’affidai”. Anche Abbado la introdusse alla Scala nel 1975 con Cappuccilli, e così feci pure io quando debuttai con Macbeth a Salisburgo».
La parte di Lady Macbeth spetta ad Anna Netrebko, un’accentratrice poderosa.
«È magnifica come interprete di questa figura diabolica, che sa portare il marito fino all’omicidio.
In lei la cattiveria si miscela alla sensualità, ed è un amalgama perturbante. Verdi voleva una subdola perfidia nella voce della Lady, al di là delle più tipiche connotazioni estetiche del canto lirico. Il dominio totale è nelle mani di questo personaggio femminile estremo, che ha interventi fortissimi sia col mondo esterno sia con Macbeth, controllato dal malefico carisma della moglie. A detta dello stesso Verdi, i protagonisti dell’opera sono lei, Macbeth e il gruppo delle streghe, simboli del male. Insieme costituiscono i tre poli di un triangolo claustrofobico e imprigionante».