la Repubblica, 3 dicembre 2021
Intervista alla scrittrice Sandra Cisneros
«La casa di Mango Street nasce dalla vergogna». Sandra Cisneros ride al telefono da Sant’Antonio, Texas. I suoi perritos, quattro, abbaiano festosi.
Uno le si accuccia sulle ginocchia. Una carezza e torna il silenzio. Sono passati quattro decenni da quando questa radiosa signora era un’umile studentessa di origini messicane in cerca della propria voce negli Stati Uniti: «Entravo nelle aule universitarie e scendeva il silenzio».
Oggi è una delle più influenti scrittrici americane, l’autrice di un libro tra memoir e fiction considerato ormai un classico della narrativa chicana, la storia di Esperanza/Hope raccontata attraverso la voce e lo sguardo di un’adolescente che diventa adulta a metà tra due culture e due lingue. Il libro, pubblicato per la prima volta negli anni Ottanta, torna in Italia per la Nuova Frontiera ed è al centro di un incontro virtuale al festival Più libri più liberi. «C’è molto di me tra quelle pagine». C’è la sua storia e quella delle tante donne ispaniche e proletarie che vivono ai margini dei grattacieli, nei quartieri che gli statunitensi ricchi e bianchi non nominano mai per educazione. A loro è dedicato il libro e anche tutto ciò che ne è seguito: raccolte di poesie, il romanzo Caramelo, borse di studio e premi tra cui il più alto riconoscimento artistico del governo degli Stati Uniti: la National Medal of Arts. Quando, nel 2016, Barack Obama glielo conferì lei si presentò vestita con l’abito tradizionale delle donne di Oaxaca e una collana con appese le foto dei suoi genitori e l’immagine della vergine di Guadalupe. Così, perché fosse chiaro chi stava rappresentando.
Señora Cisneros, da studentessa di cosa si vergognava?
«Della mia diversità, della differenza di classe sociale. Era evidente e mi faceva sentire a disagio. Io ero figlia di immigratimessicani. Ero nataa Chicago,ma dalla parte sbagliata della città,circondata dal rumoredei miei sei fratelli maschi, in quartieri nei quali ibianchinon mettevanomaipiede,se nonper errore. Ascuola venivo educatain inglese, acasa parlavo spagnolo:lamia linguamadreera comeunostrato archeologico sommersodall’inglese, mariemergeva, senza volerlo, nella sintassi».
Scrivere la faceva sentire bene?
«L’arte è una potente medicina, trasforma l’oscurità in luce e così piano piano, lavorando a dei piccoli cuentos, mescolando ricordi d’infanzia e fantasia, ho incontrato la mia voce autentica e da quel momento la vergogna si è mutata in orgoglio».
Come è accaduto?
«Ascoltavo i miei compagni leggere i loro elaborati e sapevo che non potevo scrivere nello stesso modo. Mi posi all’antitesi del romanzo accademico, volevo qualcosa di lirico come la poesia, ma accessibile a chiunque. Continuai anche dopo la fine dei miei studi. Impiegai due anni a trovare un editore. Il libro cominciò a girare grazie ai bibliotecari e ai librai. Per la prima volta gli ispanici degli Stati Uniti incontravano un personaggio che parlava come loro e viveva esperienze simili».
Quando si è innamorata della poesia e della letteratura?
«Mia madre non aveva studiato, ma aveva una grande fame di cultura.
Riconosceva la bellezza dell’arte e della letteratura, mi trascinava nelle biblioteche pubbliche e nei musei.
Dopo c’era sempre un gelato e così quelle nostre visite finivano con un sapore dolce, che non mi ha mai abbandonato».
I sogni di Esperanza, la protagonista della Casa di Mango Street, sono gli stessi delle donne chicane di oggi?
«C’è un lato triste nel successo: le lettrici mi scrivono da tutto il mondo, mi ringraziano per avere parlato di loro, s’identificano con i temi della solitudine e dell’immigrazione. Si sentono estranee nella loro casa e nel loro Paese, non sanno se adeguarsi alle nuove o vecchie usanze. Vivono con un piede in una cultura e uno in un altro».
La scrittura ha una valenza politica?
«È un dono che io intendo mettere al servizio del prossimo, del pueblo.
Voglio che i miei libri e le mie poesie mostrino la realtà e dicano alle persone: voi esistete, avete dei sogni, dei diritti… Non siete subalterni a nessuno. E pensare che all’inizio gli scrittori chicani criticavano il mio lavoro perché non lo ritenevano politico. Loro no, ma le donne invece si riconoscevano e forse per la prima volta».
Cosa consiglia a una giovane scrittrice?
«I miei consigli sono sempre tre: guadagna il tuo denaro per non dipendere da nessuno; controlla la fertilità perché oggi non ci sono scuse, la maternità deve essere una scelta; e infine coltiva la solitudine perché può essere preziosa».
La sua anima è messicana o statunitense?
«Da bambina avrei risposto in inglese: sono messicana! Oggi preferisco dire che sono delle Americhe, tutte insieme, dal Canada al Cile».
Però, nonostante sia stata consacrata ai vertici della letteratura statunitense, qualche anno fa ha deciso di trasferirsi in Messico.
«Sentivo di non appartenere del tutto al posto in cui vivevo, avevo bisogno di riconnettermi alla mia comunità ma non era un pensiero preciso. Mi trasferivo sempre più a sud. In Arizona, in Texas, a Sant’Antonio dove sono anche in questo momento… Poi un giorno sono venuti a chiamarmi i miei abuelos, morti moltissimi anni fa. Non me lo hanno detto né in spagnolo, né in inglese ma sono certa che me l’abbiano detto: “non sei a casa tua”. E così mentre tutto il mondo cercava di andare al nord, io scesi al sud, a San Miguel, un paese dove vivono persone di tutto il mondo, anche nordamericani e italiani. Lì ho smesso di sentirmi straniera».
Crede negli spiriti?
«Io non ho credenze, ho esperienze. Sono entrata in contatto con gli spiriti più volte. Non so dirvi che forma abbiano o cosa ci sia dopo la morte, ma so che qualcosa esiste. In Messico, quando lo dico, nessuno si stupisce, c’è una spiritualità fortissima. Dal punto di vista spirituale sono certa di vivere nel primer mundo».
Non ha dunque paura di morire?
«Di morire sì, ma non della morte perché so che qualcosa dopo esiste.
Per questo, quando me ne andrò, la mia ultima parola sarà: Adelante!».