La Stampa, 3 dicembre 2021
Come si elegge il Presidente
Per una serie di drammatiche coincidenze, l’ultima elezione di un Presidente della Repubblica avvenuta senza una regia politica, un metodo o almeno un qualche canovaccio, è persino dolorosa da ricordare. Era il 25 maggio del 1992 ed Oscar Luigi Scalfaro saliva al Quirinale mentre un’Italia spaventata guardava in tv i funerali di Palermo e le cinque bare con quel che restava del tritolo di Capaci.
I 1002 grandi elettori chiamati a eleggere il nuovo Capo dello Stato erano rinchiusi nei saloni di Montecitorio da quasi due settimane, protagonisti e ostaggio dello scontro fratricida tra Giulio Andreotti ed Arnaldo Forlani. E sarebbero rimasti lì chissà ancora quanto, se l’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomimi di scorta non avesse imposto un’immediata assunzione di responsabilità. Quel 25 maggio votarono tutti i 1002 grandi elettori che ne avevano diritto, cosa mai avvenuta, né prima né dopo. È vero, non tutti sostennero Scalfaro: ma 672 schede col suo nome diedero finalmente un Presidente al Paese. Si era al sedicesimo scrutinio...
Da quella drammatica elezione in poi, il sistema dei partiti ha sempre ricercato un modo – un metodo, appunto – che evitasse di ritrovarsi in una emergenza simile. Del resto, era già avvenuto per Cossiga – predecessore di Oscar Luigi Scalfaro – e sarebbe poi accaduto per Ciampi, suo successore: ampia intesa tra i partiti maggiori e due larghe elezioni al primo scrutinio. Anche le scelte di Napolitano prima (due volte) e Mattarella poi, sono state comunque il frutto di un metodo, pur se diverso da quello di una larga intesa tra i partiti (anche se questa tornò a manifestarsi in occasione della rielezione di Giorgio Napolitano).
Stavolta, in una situazione che più complicata non si potrebbe, si parla invece di nomi – piuttosto che del metodo da perseguire – perché parlare di nomi senza spiegare chi li sosterrebbe è un modo facile e poco rischioso per riempire ancora qualche settimana. Ma verrà il momento, naturalmente, in cui diventerà del tutto chiaro che il profilo del candidato al Quirinale (il nome, insomma) dipenderà dal metodo che si deciderà di perseguire: elezione a larga maggioranza, elezione come risultato di un braccio di ferro tra due o più schieramenti, ipotesi di rielezione di Sergio Mattarella. Sì, perché anche quest’ultima possibilità – la conferma al Colle dell’attuale Presidente – potrebbe dipendere in maniera rilevantissima dal modo in cui dovesse maturare. È evidente, infatti, che una cosa sarebbe se i leader dei maggiori partiti, prima di Natale, salissero al Quirinale per proporre al Capo dello Stato la rielezione, motivando politicamente e costituzionalmente le ragioni della loro scelta; ed altra cosa il pressing scomposto e affannato (come accadde per la rielezione di Napolitano) di partiti arrivati magari al decimo scrutinio e finiti in un pantano insuperabile.
Provare a stabilire un metodo, per altro, appare ancor più indispensabile se si considera che oggi i partiti sono di fronte ad un crocevia dal quale dipendono – nell’ordine – il profilo del nuovo Capo dello Stato, la permanenza in carica di questo governo e la durata della legislatura. Cominciare a discuterne seriamente, sarebbe opportuno. Onestamente, dobbiamo dire che si fatica a essere ottimisti se si pensa – per esempio – alla fine fatta fare alla proposta avanzata da Enrico Letta di un incontro tra i leader per evitare guerriglie sulla manovra economica: hanno detto tutti di sì, e infatti non è mai accaduto niente.
Ricercare un metodo vuol dire, inoltre, fissare alcune priorità politiche e istituzionali. Considerato l’intricato garbuglio che è alle porte, individuarne un paio potrebbe diventare fondamentale. La prima, sembra esser stata finalmente indicata con chiarezza dai leader della maggioranza di governo: è opportuno che Mario Draghi resti al suo posto di capo del governo. Ne dovrebbe discendere che la legislatura completerà il suo corso, qualunque sia il presidente eletto. E si può dare per certo che se questo corollario non fosse chiarito a sufficienza – o fosse addirittura contestato – ben difficilmente si riuscirebbe ad eleggere un presidente: vecchio o nuovo che egli sia.
Se non si è di fronte a pura tattica – ed il rischio che sia così è grande – le due priorità che paiono individuate sgombererebbero il campo da alcune delicatissime questioni: infatti, blinderebbero il governo di fronte alle insidie di un 2022 tutto da scoprire, rassicurerebbero i parlamentari (di centro, di destra e di sinistra) circa il loro futuro immediato e toglierebbero dalla corsa al Quirinale il più accreditato e annunciato dei candidati: Mario Draghi. Se è questo quello che Salvini, Letta, Conte, Berlusconi e Renzi hanno deciso – e fino a prova contraria vanno presi sul serio – non è affatto cosa da poco. Ora, insomma, resterebbe solo da trovare un accordo sul nome del nuovo Presidente della Repubblica: visto che sarebbe assai singolare che una maggioranza di governo che annuncia di voler stare insieme per un altro anno, poi si divida e si faccia la guerra sul futuro Capo dello Stato.
Se tutto questo fosse vero, la strada sarebbe già in discesa e la discussione su un nome condiviso da una larga maggioranza (almeno quella di governo) potrebbe essere avviata. Oltre il profilo di Sergio Mattarella (sperimentato con successo) e tolto dal tavolo quello di Draghi, quale altro può tenere assieme forze così diverse? Secondo molti, i problemi cominceranno qui. E infatti si chiedono: terrà il tentativo di eleggere tutti assieme il nuovo Presidente o si slitterá rapidamente verso il muro contro muro? Lo si vedrà. In Parlamento, intanto, c’è chi aspetta e spera nella fine regolare della legislatura. Al Quirinale, invece, c’è chi spera e basta. Sperare è una virtù teologale: esercitarla non è peccato. Che poi funzioni, naturalmente, è tutta un’altra storia... —