il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2021
Il direttore del carcere di Bergamo rubava caffè, wc, carta
Risme di carta, cialde per il caffè, pastiglie per la pressione, due water, varie bombole di gas. Antonino Porcino, già direttore del carcere di Bergamo, ha sul groppone 21 capi d’imputazione e il primato assoluto di reati a basso costo. È già stato in cella, questa volta da ospite, e deve difendersi da una gragnuola di contestazioni. Truffa, peculato, corruzione, concussione, turbativa d’asta, tra le altre.
Di singolare, nella vicenda che lo vede imputato, è questa costante propensione a fregare il minimo, in un Paese che invece tende sempre a cogliere l’attimo e sistemarsi per sempre. Anche le tangenti sono micro: alcune, sette per la precisione, da 2.500 euro, altre da tremila. In tutto non superano i 20 mila euro, e l’arraffa arraffa sarebbe – anche in questa veste – nella cornice di una inusuale modica quantità, configurandosi così come estorsore a prezzi da discount. Colpisce nel Paese degli impuniti questa storia giudiziaria a bassa intensità, giustamente inflessibile nei confronti di un tangentista, seppur dai minimi costi di esercizio. Persino la truffa ai danni dell’assicurazione, di cui adesso è chiamato a risponderne, consiste in un procurato vantaggio di 950 euro, il risultato di un’ammaccatura fasulla.
Porcino è dunque il primatista dei reati minimi, delle estorsioni tranquillamente illegali, di una pratica di vita in cui la violenza delle parole, e le allusioni, a volte le mani allungate (il tizio ha anche da rispondere di abusi sessuali) illumina questo mondo di sotto, in cui il malaffare minuto è essenza quotidiana, rappresentazione perfetta delle cose che può permettersi chi comanda, e degli obblighi a cui deve cedere il comandato: in questo caso l’agente penitenziario o il detenuto o l’appaltatore.
È come una vetrina delle cattive maniere, il responso certificato dell’illegalità sotto soglia, e i giudici bergamaschi sapranno dimostrare che la legge è legge, ed è uguale per tutti.
Uguale per tutti? Ecco, questa è la domanda più dolorosa e triste. Perché i 21 capi d’imputazione per il Porcino sembrano purtroppo un buffetto rispetto a quelle dei grandi ladri, a coloro che possono giungere fino alla prescrizione, a quel grumo di potenti e affluenti le cui reti di relazione producono la meraviglia di far scomparire dentro una nebbia fitta prove cospicue e reati certi. Decine di essi, del valore di milioni di euro, finiscono per essere dimenticati e gli sforzi della giustizia di dare giustizia anche quando si è in presenza di una truffa da 950 euro, perché il codice non fa differenza, restituisce alla realtà un valore estraneo alla democrazia, e cioè che la legge non è uguale per tutti.
L’impunità è la condizione più destabilizzante per una società che vive secondo i riti propri della democrazia, e l’idea che i “pesci grossi”, così nel vocabolario comune è definita la truppa dei potenti, la faccia troppo spesso franca sembra una verità assoluta, una realtà ineludibile e crudele.
Perciò la storia di Bergamo da un lato racconta della consuetudine a delinquere, e offre in questo caso all’attività predatoria nei confronti del bene pubblico un anomalo lato domestico, quasi da ridere: trasportare dal magazzino della casa circondariale il water per installarlo in casa propria, arraffare dalla medicheria il farmaco per la pressione arteriosa, imporre al distributore delle macchine da caffè la consegna, fuori sacco, di un tot di cialde, rappresenta la cialtronaggine che si converte in abuso e dunque in reato.
Dall’altra, l’amarezza di sapere che i fatti narrati ci restituiscono alla domanda di sempre: ma perché la legge non è uguale per tutti?