il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2021
Tutti i numeri della partita per il Quirinale
Ci sono alcuni princìpi da conoscere, prima di addentrarsi nella lunga partita per la presidenza della Repubblica. E un po’ di numeri che aiutano a orientarsi e immaginare cosa potrà succedere (li ha raccolti Openpolis).
Le regole del gioco sono note, le ha fissate la Costituzione (articolo 83) e influenzano fortemente lo svolgimento del rituale: il Capo dello Stato si elegge con voto segreto, a maggioranza di due terzi delle Camere in seduta comune, più 3 delegati per ogni Regione italiana (tranne la Valle d’Aosta che ne ha solo uno). Dopo le prime tre votazioni, se nessun candidato raggiunge la maggioranza qualificata, diventa sufficiente quella assoluta (la metà più uno dei votanti).
Le elezioni lampo. Questa norma spacca in due la corsa al Quirinale. Ci sono alcuni Presidenti (pochissimi) che arrivano alla prima votazione con una candidatura già saldata da un patto forte, trasversale, tra i partiti in Parlamento. Dall’inizio della storia della Repubblica si sono avvicendati 12 uomini al Colle (compresi Enrico De Nicola, scelto in seno all’Assemblea costituente e Giorgio Napolitano, unico finora a ottenere il doppio mandato). Di questi 12, soltanto due sono stati eletti con maggioranza qualificata entro la terza chiama: sono Francesco Cossiga (1985) e Carlo Azeglio Ciampi (1999). Entrambi sono passati alla prima votazione, con un accordo che ha coinvolto quasi tutti i gruppi politici.
Erano, peraltro, Parlamenti più divisi di questo. Nel 1985 l’Italia era in una stagione di piena conflittualità tra pentapartito e comunisti, dopo il taglio della scala mobile deciso dal premier socialista Bettino Craxi. Invece il segretario democristiano Ciriaco De Mita trovò in Cossiga un nome accettabile – forse, ex post, improvvidamente – sia dall’omologo comunista Alessandro Natta che dai rivali craxiani (per convincere i liberali invece promise la nomina di un senatore a vita del Pli, Giovanni Malagodi: promessa non mantenuta). Nel 1999, invece, a Palazzo Chigi c’era il primo post comunista della storia: Massimo D’Alema. Il segretario dei Ds, Valter Veltroni, trovò forse l’unico nome che poteva mettere d’accordo tutti, prima Gianfranco Fini, poi anche Silvio Berlusconi (con l’intercessione di Gianni Letta): Ciampi, ex presidente della Banca centrale ed ex premier, l’uomo dell’ingresso nell’euro.
Per certi versi una figura simile a quella di Mario Draghi, che in effetti si candida a essere eletto con lo stesso metodo: primo scrutinio, accordo di ferro tra i gruppi parlamentari, un margine sufficiente per sentirsi al riparo da imboscate o franchi tiratori. L’attuale premier può arrivare al Quirinale solo così, con un chiaro mandato già prima dell’inizio del “conclave” e un’elezione rapida. Non è immaginabile che si avvicini o addirittura superi la boa della quarta votazione.
Le lotterie. La storia della Repubblica dice che se non si viene eletti al primo tentativo, può diventare decisivo il quarto: nessuno è mai stato eletto al secondo o al terzo. Un fatto abbastanza ovvio: se manca una maggioranza qualificata prima dell’inizio dei giochi, non si può fare altro che lavorare per costruirne una assoluta. In altre parole: se non può essere un presidente scelto da tutti, bisogna aspettare il quarto giro perché emerga la coalizione che si prende la golden share ed elegge un presidente “di parte”.
Nella storia italiana, la quarta votazione ha deciso la partita più spesso di tutte le altre. È successo un terzo delle volte, quattro presidenti su dodici: Luigi Einaudi nel 1948, Giovanni Gronchi nel 1955, Giorgio Napolitano (bis) nel 2013 e Sergio Mattarella nel 2015.
Dal quarto scrutinio in poi saltano le regole e può succedere di tutto: la corsa diventa una lotteria. E i “papi” immaginati all’inizio del conclave hanno enormi possibilità di tornare a casa da cardinali semplici.
L’esempio Mattarella. Lo mostra la più recente elezione di Mattarella: la carta dell’attuale presidente della Repubblica rimase ben nascosta nel mazzo dei candidati fino alla quarta chiama, quando il segretario del Pd Matteo Renzi la tirò fuori rompendo il patto con Berlusconi. Nelle prime tre votazioni Mattarella prese rispettivamente 5, 4 e ancora 4 voti (mentre si alternavano, con poche speranze, le candidature di Ferdinando Imposimato, Vittorio Feltri, Luciana Castellina ed Emma Bonino). Alla quarta Mattarella ne raccolse all’improvviso 655 e fu eletto subito.
Le maratone. Non sempre però l’abbassamento del quorum al 50%+1 dei votanti è sufficiente per rompere lo stallo. Come calcola Openpolis, nella storia della Repubblica sono serviti in media 9 scrutini per decidere il presidente. Un numero “falsato” al rialzo da alcune elezioni che si sono trasformate in vere e proprie maratone. Il record è di Giovanni Leone: nel 1971 il democristiano ha conquistato il Colle solo al 23esimo scrutinio e grazie anche ai voti dei post fascisti del Movimento Sociale Italiano. Leone è anche il presidente eletto con la percentuale più bassa della storia, solo il 52%: 518 voti contro i 408 del socialista Pietro Nenni. Un’altra maratona furono i 21 scrutini serviti per l’elezione del socialdemocratico Giuseppe Saragat nel 1964, quando raccolse l’eredità di Antonio Segni, primo e unico presidente a lasciare la carica per malattia – una trombosi cerebrale – a due anni e mezzo dall’inizio del mandato. Di lunghissima gestazione anche le elezioni di Oscar Luigi Scalfaro (1991) e di Sandro Pertini (1978): per entrambi sono serviti 16 tentativi.
Le maggioranze. Nei numeri delle votazioni per il Colle c’è un’apparente contraddizione: solo due volte, come abbiamo visto, i presidenti sono stati eletti prima della quarta chiama, quando c’era bisogno della maggioranza di due terzi. Allo stesso tempo, però, solo quattro volte il Capo dello Stato è stato eletto con una percentuale inferiore al 60% dei voti del Parlamento. Oltre a Leone (52%), è successo a Segni (52,6%), il primo Napolitano (54,3%) e Luigi Einaudi (59,4%).
Il presidente eletto con il consenso più ampio, nonostante ci siano volute 16 votazioni, è Pertini (83,6%, e finirà probabilmente per essere anche il più amato). Poi Giovanni Gronchi (79%), Francesco Cossiga (76,8%) e Giorgio Napolitano (II) (74%), Quest’ultimo (ri)eletto tra gli applausi scroscianti di un Parlamento per il quale lui stesso esprimeva sdegnato imbarazzo, dopo i famigerati “101” che affossarono Romano Prodi. I franchi tiratori, per quanto anonimi, più famosi della storia della Repubblica.