Linkiesta, 2 dicembre 2021
L’isteria da pacca sul culo
Forse la domanda non è più solo «ci sono discriminazioni di cui sia più conveniente essere vittime»: forse la domanda è se ci siano reati le cui vittime siano più ascoltate di altre. E non dipende dal loro essere i reati peggiori: solo quelli più di moda.
In questi ultimi anni, ve ne sarete accorti se eravate sì su Marte ma col wifi, vanno di moda i reati sessuali. Sono gli unici cui c’interessiamo, gli unici ai cui colpevoli non concediamo il beneficio del dubbio, gli unici – che il dio delle parole mi perdoni – notiziabili.
Abbiamo per il sesso (inteso sia come avance sessuale sia come genere sessuale) un interesse così morboso che sembriamo usciti da un convento l’altroieri. E, sempre come chi scopra il mondo senza essere preparato ad affrontarlo, perdiamo completamente il senso delle proporzioni.
In questi giorni la cosa più grave successa in questo secolo non è più che qualcuno abbia notato che una serie parlata in romano è effettivamente parlata in romano, come ci sembrava la settimana scorsa, quando lo scandalo della romanità incomprensibile ad alcuni infelici pochi aveva superato l’11 settembre, il Bataclan, e persino il MeToo nella notiziabilità locale.
Il sesso è tornato a spadroneggiare: la cosa più grave successa in questo secolo è che un tizio abbia dato una pacca sul culo a una tizia. Oddio, “sesso”: un culo vestito è così poco oggetto sessuale che Instagram nemmeno te lo censura.
Ma non importa, perché la pacca è stata data davanti alle telecamere, fornendoci – oltre che una struggente prova di fessaggine del tizio – indignazione così pronta che sarebbe stato uno spreco non approfittarne.
E quindi ecco i penalisti amatoriali disquisire sui social di come quella sia violenza sessuale e il tizio verrà condannato a una pena tra i sei e i dodici anni. Ma, benedetti figlioli, posto che in confronto a me Travaglio è Cesare Beccaria e io vi manderei tutti in galera senza passare dal via ancor prima che tocchiate un culo, già solo perché andate allo stadio; ecco, premessa la premessite, se per una pacca sul culo condannassero a sei anni, per uno stupro quanti dovrebbero darne: seicento?
Ma non è dell’isteria da pacca sul culo che voglio parlare, e neanche del fatto che una pacca sul culo vi sembri più grave delle morti sul lavoro (come saggiamente notò mesi fa Natalia Aspesi, persino il tizio che fischia per strada vi sembra più grave di quel fenomeno per niente portatore di cuoricini su Instagram che è l’operaio che casca dall’impalcatura).
Voglio parlare di Alice Sebold, di cui avete probabilmente letto Amabili resti (o avete visto il film). Quando aveva diciott’anni, la scrittrice venne violentata. L’uomo che vide per strada e credette di riconoscere e identificò in tribunale si fece diciott’anni di carcere.
Su quella storia, la Sebold scrisse un libro, Lucky (in Italia lo pubblica e/o), il cui titolo viene dal poliziotto che le disse che era stata fortunata. Come il conduttore la cui inviata viene palpeggiata e che non ha la prontezza di riflessi di declamare Carla Lonzi in diretta, così il poliziotto che usa l’aggettivo sbagliato diventa immediatamente il cattivo della situazione, il simbolo di tutto ciò che non va, l’oggetto del nostro sdegno. Anche se era, la proporzione del poliziotto, inattaccabile: Sebold era stata in effetti fortunata rispetto alla ragazza che nello stesso posto era stata uccisa e smembrata.
Quattr’anni fa, Sebold ripubblica Lucky con una prefazione a sdegno garantito: «Sono passati trentasei anni da quando sono stata violentata, diciotto dalla prima edizione di Lucky, e solo due mesi da quando un molestatore seriale nonché orgoglioso palpeggiatore di figa è stato eletto quarantacinquesimo presidente di questi Stati Uniti». Sai quanti cuoricini assicurati, a dire che Trump è brutto e cattivo.
Nel frattempo l’accusato (da Sebold) era uscito di galera da un paio di decenni, trascorsi – come quelli precedenti – a proclamare invano la propria innocenza. Poi arriva l’antieroico eroe. Timothy Mucciante (che nome favoloso, sembra inventato da Puzo). Uno che non s’accontenta di schierarsi col vittimismo più fotogenico.
Mucciante doveva produrre il film tratto da Lucky. Nota delle incongruenze nella storia. Approfondisce. Dubita. Lo cacciano dalla produzione del film: alle donne si crede, le donne sono ontologicamente vittime, come osi dubitare, fascista e probabilmente maniaco sessuale che non sei altro. Mucciante s’incaponisce. Assolda un investigatore. Il tizio che i diciott’anni di galera se li è ormai fatti viene scagionato. Alice Sebold si scusa: le dispiace che a essere vittima del sistema giudiziario (un po’ anche della sua confusione mentale, che è legittima ma letale: siamo proprio sicuri di volerci basare sui ricordi che abbiamo dei nostri traumi?) sia stato l’ennesimo nero. Fosse stato bianco, la contrizione dell’accusatrice per errore sarebbe stata meno fotogenica.
Conviene non farsi rapinare: se qualcuno invece di derubarti ti tocca il culo, le forze dell’ordine lo identificano con molta più urgenza. Ma conviene anche smettere d’illudersi che il mondo lo cambieranno gli indignati in servizio permanente effettivo, quelli sempre pronti alla morte per la causa del giorno purché sia a presa rapida, i militanti della pruderie e i negazionisti delle gerarchie (gerarchie di tutto: di reati, di risorse, d’attenzione, di traumi, di gravità).
Conviene sperare in molti Mucciante disposti a essere la liceale più impopolare della classe e a ristabilire verità che non ci piacciono, ma che forse sono più importanti dei cuoricini.
(Il non colpevole si chiama Anthony Broadwater, aveva 22 anni quando fu condannato nel 1982. Si è detto «grato» delle scuse di Sebold. Lucky, il film, non si farà più. Di Lucky, il libro, l’editore americano ha detto che lo ritirerà dal commercio).