Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 02 Giovedì calendario

Intervista a Paolo Calabresi

Paolo Calabresi, uno e trino. L’attore romano, 57 anni, è praticamente ovunque: sul set della serie Boris 4, al cinema con la commedia Una famiglia mostruosa di Volfango De Biasi e All’alba perderò di Andrea Muzzi, nei festival con Trafficanti di virus di Costanza Quatriglio (Torino Film Festival) e Takeaway di Renzo Carbonera (la scorsa Festa del Cinema di Roma). Ma è solo l’inizio: dalla prossima settimana sarà in sala anche con Mollo tutto e apro un chiringuito, prima di arrivare in libreria con il suo primo romanzo, ancora senza titolo.
Tutti la vogliono: cosa succede?
«Si è solo creato un imbuto. Ho sempre dedicato almeno tre, quattro mesi l’anno al teatro, che per me è come una spa di lusso. Ma durante la pandemia, con i teatri chiusi, ho girato più film. Cosa che mi ha permesso, almeno, di sperimentare stili diversi. Ho il terrore della collocazione coatta».
Cioè?
«Nel nostro paese, ma forse anche all’estero, se fai un commissario o un sacerdote per una volta, e lo fai bene, lo fai per tutta la vita».
A lei che fanno fare?
«Avendo io seminato in tanti campi diversi, posso dire quello che non mi fanno fare: il protagonista. Cosa che ovviamente mi piacerebbe molto. Ho il sospetto che la gente si chieda ancora che lavoro faccio».
Boris 4 a 11 anni da Boris 3: perché non farlo prima?
«La quarta stagione di Boris è stata per anni un tormentone. Quando Mattia, Giacomo e Luca (Torre, Ciarrapico, Vendruscolo: gli autori, ndr) hanno pensato di riprenderla in mano, gli sembrava troppo tardi. Il mondo della tv nel frattempo era cambiato: dicevano che un nuovo Boris avrebbe avuto meno senso. Magari qualcuno mi smentirà, ma io ho sempre pensato che la ragione fosse un’altra».
Quale?
«Che quando Mattia si è ammalato (è morto nel 2019 per un tumore, ndr), aveva semplicemente bisogno di fare altro. E lo ha fatto: cose bellissime, in teatro e in tv. Credo che sentisse il legittimo bisogno di cambiare».
Dopo tanti anni non avete paura di essere superati a destra dalla realtà?
«No. In questa stagione non parleremo solo di cinema e tv, ma anche e molto di piattaforme. Siamo sul pezzo».
In Una famiglia mostruosa è uno zombi. Chi sono oggi i mostri?
«Siamo noi, quando ci adeguiamo a un mondo che ci spersonalizza, quando esageriamo a filtrare le relazioni con i social, quando per pigrizia non ci alziamo dal divano per andare al cinema».
Nel film c’è anche Pippo Franco: apprezza?
«L’ho visto poco, un paio di giorni. È un esuberante, gli piace parlare, si interessa di tutto. Io poi sono un cultore, sono cresciuto col suo album Cara Kiri». In Takeaway recita con Libero de Rienzo, morto a luglio. Che ricordo ne ha?
«Istinto puro. Al pubblico, e ad alcuni di noi, mancherà. Non mancherà al cinema italiano, che da tempo aveva rinunciato al contributo importante che gli avrebbe potuto dare».
Nel film De Rienzo è un mentore del doping. Parlavate di sostanze?
«Fa impressione pensare al ruolo, rispetto a quello che è accaduto (De Rienzo è morto per overdose, ndr). Ma con Picchio raramente si parlava di questo».
Ha un figlio calciatore professionista: mai avuto contatti col doping?
«No. Ma ho visto scene che non avrei voluto vedere, quello strano meccanismo per cui l’attività del figlio diventa la sublimazione delle frustrazioni sociali dei genitori. E mi ci metto in mezzo anche io, succede soprattutto ai padri».
E il suo libro? Di che parla?
«È una storia ispirata a quel periodo della mia vita in cui eccedevo con il trasformismo: uscirà tra febbraio e marzo. Racconto di quando mi finsi Nicolas Cage per entrare a vedere una partita. Il Milan mi prese sul serio, partì la macchina promozionale e fui annunciato in diretta. Mi portarono a conoscere i calciatori. Giocavano contro la Roma, incontrai anche Francesco Totti».
E che gli disse?
«Totti number one. Dopo qualche settimana mi hanno scoperto. Fu proprio Il Messaggero».
Ma Nicolas Cage l’ha mai incontrato?
«Mai. Però quando andai a Los Angeles mi comprai la mappa delle ville dei vip, cercai la sua e gli lanciai in giardino il dvd che raccontava la mia avventura nei panni di Nicolas Cage. Dopo venti secondi mi sono trovato spalle al muro, con la sicurezza addosso. Ma questa è un’altra storia».