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 2021  dicembre 02 Giovedì calendario

Intervista a Damiano Michieletto

E finalmente arrivò anche il cinema. Celebre regista d’opera, Damiano Michieletto si era già in qualche modo misurato con la fiction anche in teatro: grazie agli inserti filmati dei suoi spettacoli. Ancora viva l’eco dello straordinario Rigoletto che metà cinema dal vivo, metà opera filmata – montò al Circo Massimo di Roma nell’estate 2020. Il passaggio, insomma, era fatale. Così uno dei più acclamati registi lirici ha finalmente firmato anche la sua prima pellicola: il Gianni Schicchi tratto dall’omonima opera buffa di Giacomo Puccini che – girato tra gli ulivi e i cipressi di Sant’Anna in Camprena, Val d’Orcia, con interpreti Roberto Frontali e Federica Guida, e per la direzione d’orchestra di Stefano Montanari – dopo il debutto al Torino Film Festival con le prossime feste approderà sugli schermi della Rai
Michieletto: perché per il suo film ha scelto un’opera? E perché l’unica opera comica di Puccini?
«Con l’opera avevo l’impressione di trovarmi già nel mio. E ho scelto Schicchi perché se dici opera di solito pensi a grandi conflitti tragici, a drammoni tutti sopra le righe. Mentre per un vasto pubblico la commedia risulta più abbordabile, più accattivante. E poi il libretto originale di Forzano, pur ambientato in un solo luogo, apre a tante situazioni: è quasi una sceneggiatura scritta in endecasillabi e settenari. Del resto siamo nel 1917, il cinema è nell’aria; Forzano stesso, oltre che musicista, fu sceneggiatore».
Dunque cos’è il suo Gianni Schicchi? Teatro filmato? Film opera? Melodramma sceneggiato?
«È un film musicale. Nell’accezione più larga del termine. Parte dal teatro ma è girato come un film: gli interpreti cantano dal vivo come in scena, senza il solito playback usato nei film opera, ma interrompendosi per i ciak come sul set. Amo le storie che raccontano in musica. Mentre alcuni trovano assurdo che in un musical un personaggio all’improvviso attacchi a cantare, io trovo quest’assurdità logica. Anzi eccitante».
Si dice che lei abbia trattato Giacomo Puccini come fosse il Mario Monicelli della commedia all’italiana.
«Esattamente. Leggendo la trama – che tratta dall’Inferno dantesco narra dell’inganno con cui Schicchi, sostituendosi ad un morto, detta al posto suo un testamento a favore degli avidi parenti – ho pensato subito a Parenti serpenti di Monicelli. La cupidigia mescolata alla falsa religiosità; l’ipocrisia mascherata da perbenismo. Tutto sul filo di un’ironia travolgente: sessanta fulminei minuti di ferocia molto toscana».
Quanto è intervenuto sul soggetto originale? Lei è celebre (ma anche contestato) per le sue riletture.
«Musicalmente questo è un film a prova di melomane. Niente tagli, nessun adattamento. Se piacerà sarà perché avrà soddisfatto il musicofilo più esigente e, al tempo stesso, coinvolto chi neppure sa chi sia Puccini. Ma senza che serva saperlo. Non volevo girare, infatti, un film solo per gli appassionati d’opera; ma anche per chi, se dici Schicchi, magari pensa solo al produttore dei film hard con Cicciolina o Moana Pozzi».
Tuttavia le novità ci sono. Lei dà infatti la parola all’unico che non canta una sola nota: il cadavere.
«Sì, Buoso Donati, il morto di cui i parenti si litigano l’eredità, che è interpretato da Giancarlo Giannini e che in un prologo adombra un’inquietante ipotesi. E se la sua morte non fosse stata esattamente naturale?. Anche questa coloritura gialla è motivata: la bramosia dei parenti potrebbe essersi spinta a gesti estremi».
Una lettura diversa viene riservata anche all’aria più celebre dell’opera, «O mio babbino caro».
«Ci voleva un motivo forte, oltre alle semplici insistenze di sua figlia, per convincere Schicchi ad aiutare dei parenti che odia nel falsare il testamento di Buoso. Se lo facesse solo per i soldi sarebbe solo un avido: proprio come loro. Invece lo fa per la figlia, perché uno di loro l’ha messa incinta. Tutto diventa così più logico. E non a caso il film finisce, appunto, con la nascita del bambino».
Com’è andata la sua prima esperienza sul set? Nell’opera lei è ormai un maestro riconosciuto. Al cinema era solo un debuttante.
«Con l’opera procedi per accumulo: ogni giorno ne costruisci un pezzo in più. Col cinema è il contrario: il film è tutto scritto dall’inizio e ne tiri via un pezzo per volta. Virtualmente il cinema ti consente un controllo totale del tuo lavoro, che poi hai il privilegio di fissare nella sua versione migliore. Però non ha il rapporto diretto col pubblico, che in teatro ti aiuta correggere un errore, o migliorare un effetto, a seconda delle reazioni della platea. L’uno si vende a scatola chiusa. L’altro si perfeziona sera dopo sera».
E i cantanti? In teatro è sempre buona la prima: ma sul set, dove si può anche ripetere?
«Ecco il guaio. Magari un ciak fotograficamente perfetto doveva essere rifatto perché un cantante non trovava ideale la sua prestazione. C’era poi la questione degli orari: abituati a lavorare di notte e a dormire di giorno, qui i cantanti dovevano attaccare all’alba col trucco, avere la voce già calda alle prime ore del mattino, e cantare fino a sera. Ma la novità ha galvanizzato tutti. Eravamo tutti consapevoli di affrontare una piccola sfida; e in tutti c’era una gran voglia di mettersi in gioco».
Che rapporto ha con illustri precedenti di film-opera come Il flauto magico di Bergman, il Don Giovanni di Losey, la Carmen di Rosi o La Traviata di Zeffirelli?
«Penso soprattutto a quest’ultima. Zeffirelli, considerato un regista tradizionale, ebbe invece il gran merito di intuizioni folgoranti. In Traviata azzardò il primo flashback mai fatto in un film-opera. Allora la cosa fece gridare allo scandalo; ma cinematograficamente era un colpo di genio. Oggi i flashback si sprecano perfino in teatro. Se maestri come Zeffirelli non avessero percorso nuove strade, oggi io non potrei seguire le mie».