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 2021  dicembre 02 Giovedì calendario

Quattro Nobel e il rebus del post pandemia

«La visione che abbiamo del concetto di crescita economica non è ormai più al passo con il tempo, occorre valutarla in modo migliore, dal punto di vista qualitativo oltre che soltanto quantitativo. Bisogna misurarla in modo corretto, tenendo conto di tanti altri aspetti. Crescita significa in primo luogo creare maggior benessere, soprattutto a livello mentale. E per favorirla dobbiamo cercare di risolvere problemi enormi come il cambiamento climatico. Ma ancora una volta, tutto questo può essere affrontato solo se riusciamo a misurare questo benessere in modo corretto». Ciò che contraddistingue un Premio Nobel è la capacità di guardare ai problemi da angolature diverse. Fuori dagli schemi su cui tutti lavorano e ragionano. E Bengt Holmström, Premio Nobel per l’Economia nel 2016, la capacità di ragionare fuori dagli schemi la dimostra con naturale facilità. Proprio nell’anno in cui tante economie del mondo crescono a tassi che non si vedevano da anni (Italia inclusa), lui ricorda che il Pil è solo un’imperfetta unità di misura. E il benessere talvolta non ci sta dentro.
Il ragionamento di Holmström è emerso durante un’intervista in esclusiva, organizzata ieri pomeriggio da Ubs con Il Sole 24 Ore presso l’Università Bocconi di Milano, con quattro premi Nobel. Oltre a Holmström hanno partecipato Michael Kremer (Nobel Laureate 2019), Michael Spence (2001) e Jean Tirole (2014). Un «brain storming» con alcuni dei più brillanti cervelli in campo economico della Terra, per guardare – con occhi diversi – alle sfide di oggi e di domani: le diseguaglianze sociali, la crescente inflazione, la crisi delle catene globali delle forniture, il ruolo delle banche centrali e dei Governi. E ovviamente la tecnologia. Tutto per cercare di immaginare e ragionare su un modello economico, per parafrasare Holmström, che alla crescita del Pil affianchi quella del benessere. A livello globale. Sfida ancora più complessa oggi, ai tempi della pandemia. E proprio da qui la discussione parte: dalle diseguaglianze, vaccinali e non solo, tra il Nord e il Sud del mondo. 
Professor Kremer, la differenza sul tasso di vaccinazione tra Paesi sviluppati ed emergenti è molto ampia. Un effetto di un sistema economico che guarda troppo al profitto privato e non è solidale?
È un obbligo sociale e morale consentire a tutti l’accesso alla vaccinazione. Ma è un obiettivo che deve essere perseguito anche per motivi economici: il fatto che non ci sia un alto tasso di vaccinazione nei Paesi più poveri, a fronte di un mondo così globalizzato, crea grandi danni agli stessi Stati più industrializzati. Ciò detto, riguardo all’eccesso sui profitti privati, credo che il tema sia un altro. L’economia deve occuparsi di come incentivare il privato a perseguire anche interessi sociali. Un focus, ad esempio, deve essere sui contratti tra i produttori del vaccino e gli Stati. Si tratta di evitare di sprecare il denaro. Da un lato, il Covid ha causato danni all’economia; dall’altro ci sono stati dei costi per lo sviluppo dei vaccini stessi. Certo: è stato un rischio. Ma alla fine questi sono costati molto meno dei danni che la pandemia avrebbe potuto ulteriormente creare. In generale adesso è fondamentale spendere per fare in modo che il vaccino sia accessibile a tutti. 
È favorevole alla liberalizzazione temporanea dei brevetti sul vaccino?
Io credo che bisogna avere una approccio più ampio. Non è un tema di minori o maggiori diritti intellettuali. Essenziale, su questo fronte, è sfruttare i cosiddetti “advanced market commitment”. Vale a dire: degli accordi, anche pubblico/privato, che consentano, da una parte, di incentivare lo sviluppo della ricerca e la realizzazione delle nuove tecnologie; e, dall’altra, l’essenziale accesso a tutti dei vaccini. 
Restiamo ancora con Lei: la pandemia ha amplificato le disuguaglianze: pochi hanno sempre di più e tanti sempre di meno. Un problema anche dal punto delle politiche fiscali… 
In effetti, attualmente, c’è un’impennata del debito pubblico. Attualmente può essere gestita anche grazie ai bassi tassi di mercato che implicano minori oneri finanziari. A ben vedere, le politiche fiscali espansive aiutano chi è in difficoltà, chi ha bisogno. Insomma: sono veramente importanti. Tuttavia la domanda è: cosa accadrà con la prossima crisi che, peraltro, non sappiamo quali sembianze potrà assumere? Il rischio è che a quel punto potrebbe arrivare il momento in cui ci scontreremo con un limite. Un tetto massimo dove non c’è più spazio per la spesa fiscale. Il che sarà un grosso problema.
Professor Tirole, non si starà esagerando con i deficit
pandemici?
Anche se in questo momento va di moda minimizzare gli impatti futuri del deficit è bene tenere sempre a mente che troppo deficit prima o poi, da qualche parte, finisce per causare dei danni. L’Italia negli ultimi anni si è difesa grazie all’avanzo primario, altri Paesi non sarebbero in grado di farlo.
In un mondo che è cambiato velocemente con la pandemia, abbiamo scoperto anche un problema che non si era mai presentato in passato: la crisi delle «supply chain», cioè delle catene globali delle forniture. Professor Spence, va ripensato il modello economico basato su catene globali?
Le supply chain sono sistemi molto complessi, che non hanno un’architettura. E come in tutti i grandi sistemi decentralizzati si tende a investire eccessivamente in efficienza e non abbastanza in resilienza. La pandemia ha però distrutto ogni argine protezione. Uscendone, ora, abbiamo avuto una forte crescita della domanda, che ha messo sotto stress le catene di rifornimento globali e ora i problemi stanno impiegando molto più tempo di quanto avessimo previsto per risolversi: dalle stime che circolano, potremmo non riuscire a superare le difficoltà prima della fine del 2022. Penso che quando ne verremo fuori scopriremo che ci sono stati cambiamenti strutturali: avremo una maggiore resilienza del sistema e saremo maggiormente capaci di rispondere a modifiche improvvise sul lato della domanda.
Quali cambiamenti strutturali servono?
Penso che ci sia una ragionevole possibilità che si arrivi finalmente a capire che il sistema sarebbe maggiormente in grado di rispondere se ci fosse più trasparenza. Oggi è così complesso e c’è un grado talmente elevato di decentralizzazione che nessuno riesce a intravvedere i problemi quando nascono. Bisognerebbe invece trovare il modo di centralizzare una raccolta dei dati più importanti per decifrare la condizioni del sistema, magari attraverso qualche grande organizzazione come il Wto.
La crisi delle «supply chain» ha anche riportato d’attualità un fenomeno che non si vedeva da molto tempo: l’inflazione. Per gran parte è dovuta a un problema di offerta, ma c’è anche una crescente pressione sui salari. Professor Tirole, crede che le banche centrali possano farsi scappare di mano l’inflazione?
Non vorrei essere nei panni di un banchiere centrale in questo momento. La situazione è complicata. Dobbiamo capire se ci limiteremo a vivere un’inflazione da “effetto sorpresa” oppure se si configurerà uno scenario di inflazione duratura. Va detto che l’inflazione può aiutare in questo momento i Paesi a ridurre in termini reali l’elevato indebitamento. Il rischio è però che vada a colpire le classi meno abbienti, aumentando a fine pandemia il divario sociale nella distribuzione della ricchezza. I poveri sono quelli meno equipaggiati per difendersi dall’aumento dei prezzi.
Professor Holmström, lei cosa ne pensa? Le banche centrali ce la faranno a tenere a bada l’inflazione senza colpire la crescita economica?
Penso che la questione sia posta in modo incompleto, perché per le Banche centrali non esiste soltanto il problema di come affrontare l’inflazione: abbiamo anche una quantità di debito enorme, che potrebbe creare rischi se verranno aumentati i tassi di interesse. 
Professor Spence, la strada delle banche centrali è davvero così stretta?
Anche io sono molto felice di non essere un banchiere centrale: oggi loro sono in una posizione molto difficile. Gli Stati sono fortemente indebitati e fanno resistenza a un aumento dei tassi di interesse, ma le banche centrali al tempo stesso devono mantenere la credibilità sul controllo dell’inflazione. Credo che cercheranno comunque di intervenire, perché se non riuscissero a contenerla almeno un po’ perderebbero la reputazione, e che per evitare di mettere a repentaglio la ripresa si faranno aiutare dai governi per offrire sostegno delle imprese. 
L’inflazione arriva in buona parte per il rincaro dell’energia. Professor Tirole, noi lo vediamo come un flagello, ma si può guardare il bicchiere mezzo pieno?
Il recente rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche, fra cui quello del carbone e del natural gas, non è un male per la società. Perché stimola a trovare soluzioni alternative. Lo abbiamo già visto negli anni ’70 con lo shock petrolifero, che stimolò l’industria verso un cambiamento
Anche Lei, Professor Kremer,  indica la tecnologia come un mezzo per risolvere molti problemi, tra gli altri quelli dei cambiamenti climatici. La tecnologia, però, è frutto di quello stesso sistema che dà vita al “climate change”. Non c’è il rischio di risolvere solo i problemi contingenti e non quelli di fondo?
Non sono d’accordo. L’uso della tecnologia è conseguenza delle scelte politiche e sociali che si fanno. La tecnologia e l’innovazione sono essenziali. Possono dare un contributo importante anche sul fronte del “climate change”. E questo sia a livello globale che locale. Pensiamo, ad esempio, all’uso molto diffuso dei taxi nei Paesi più poveri. L’elettrificazione dei veicoli è un processo da sostenere, e finanziare, che può aiutare moltissimo contro l’inquinamento.
Finora abbiamo assistito a una ripresa post-Covid anche superiore alle previsioni più rosee. Ancora una volta, e soprattutto per l’Europa e l’Italia, si ha l’impressione di essere di fronte a una crescita senza occupazione. Professor Tirole, che ruolo può aver giocato, e giocherà, la tumultuosa crescita tecnologica in questo processo? Quanto la preoccupano le conseguenze sociali che questo processo può avere nel lungo termine?
Ogni volta che siamo in presenza di una crescita guidata dall’innovazione si crea in realtà una distruzione di posti di lavoro, perché ci saranno attività che nessuno vuole più fare. Dobbiamo quindi difendere chi perde l’occupazione a causa del progresso tecnologico. Negli Stati Uniti non esiste assolutamente protezione e se non riusciremo a intervenire avremo presto uno shock determinato dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Professor Tirole, dalla tecnologia sono nate anche le criptovalute.  In questo momento sta crescendo la diffusione del Bitcoin in molti Paesi poveri. Pensa che possa essere uno strumento per ridurre le diseguaglianze o sono maggiori i rischi che competa per il dollaro come riserva di valore, come recentemente paventato da Hillary Clinton?
Ovvio che le criptovalute si stiano diffondendo e ne sentiremo parlare in futuro. Tuttavia andrebbero regolamentate perché al momento sono ancora uno strumento molto utilizzato per traffici di denaro illecito. Inoltre sono troppe e si rischia di creare un’enorme confusione nel settore.
Infine un punto sulla situazione italiana, che sta vivendo un boom economico pieno di incertezze. Come appare da fuori questo Paese, Professor Spence?
L’Italia ha oggi una possibilità che non ha avuto in ultimi 20 anni. Confido nel fatto che tutti i partiti continuino a sostenere questo governo: perché con la leadership che riesce ad esprimere, l’Italia potrebbe essere a un vero punto di svolta sul fronte della crescita.